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Da Bruxelles e Berlino partivano parecchi cenni inequivocabili per far capire agli italiani cosa doveva saltare fuori dalle elezioni: un governo stabile che proseguisse determinato e affidabile nel percorso del risparmio e della stabilità, deciso da e per l’Europa. Guai a fraintendere questi cenni come ingerenza nella libertà delle elezioni – al limite un’ingerenza alla quale il ministro di finanza tedesco e quello degli esteri avevano tutto il diritto perché la posta in gioco non era niente meno che il futuro destino dell’Europa.
E non c’era nessun segreto su chi scegliere con la croce come copertura ideale: “dipendesse dal resto d’Europa l’incarico di premier lo conserverebbe presumibilmente l’affidabile Mario Monti.”[ 1 ]
Poiché la rotta politica è considerata priva di alternative e, di conseguenza, non c’è nessuna scelta, la soluzione più pulita sarebbe stata di eleggere, come legittimazione democratica a posteriori, “questo pupillo della scena politica di Bruxelles” che finora aveva governato il paese in qualità di tecnocrate senza dover badare troppo ai voti. Uscito vincitore avrebbe potuto invocare la volontà del popolo presentandogli le inevitabili durezze del suo operato di salvataggio.
Della sua missione e della sua responsabilità che si estende ben oltre i confini del proprio territorio, il popolo italiano – almeno secondo una stampa tedesca disincantata - ”non aveva capito niente”. “Gli italiani hanno lasciato un messaggio molto semplice nelle urne: non abbiamo capito niente. Non ha senso insultarli però, loro vivono in un clima politico che favorisce mezze verità e promuove la satira a ragion di stato. Due comici si sono candidati alle elezioni e si sono visti premiati per le loro urla diffamatorie: Silvio Berlusconi e Beppe Grillo.“[ 2 ]
Abboccare a due buffoni, non è proprio un complimento alla maturità politica. Tanto più che uno – Berlusconi – non si sarebbe presentato per vincere ma per ottenere proprio il risultato che si è realizzato, “l’ingovernabilità”. Uno scopo grottesco ideato nelle redazioni tedesche al fine di poterselo spiegare come “una specie di vendetta alla Germania”[ 3 ].Non da meno sarebbe l'altro populista Grillo che, con il suo rifiuto irremovibile di fare causa comune con la vecchia casta dei politici corrotti, non produce altro che ingovernabilità. Un popolo che a maggioranza elegge questo fior di comici non solo affonderebbe il paese nel disastro di trovarsi senza un governo ma si permetterebbe pure una sciocchezza tanto odiosa quanto ostile all'Europa perché Berlusconi e Grillo hanno realizzato punti aizzando contro la UE. Invano allora i politici tedeschi hanno messo in guardia da questi ostruzionisti – un'ingerenza che il paese ha rifiutato in maniera trasversale ricorrendo a repliche più o meno germano-fobiche. Queste il ministro degli esteri tedesco a sua volta non le vuole tollerare. Rendendo pan per focaccia va al contrattacco e dichiara l'Italia l’unico responsabile della sua crisi. L'Italia deve rapidamente assumersi la responsabilità nei confronti dell'Europa, ma la colpa per la sua situazione è unicamente sua:
“Ma c’è una cosa che non accettiamo – che si vuole fare della Germania l'oggetto di una campagna elettorale nel segno del populismo. Né la Germania né l'Europa sono la causa delle attuali difficoltà in Italia.”[ 4 ]
Nei prossimi capitoli proponiamo un chiarimento di cui possiamo anticipare almeno questo: la causa della crisi attuale del paese sta proprio in Europa, in Germania e in Italia.
Italia, terza potenza costitutiva della CEE ora UE, non è uno stato qualsiasi: ascesa a quinta potenza industriale sul globo con un ranking AAA e a secondo esportatore di macchinari dell’ Europa, indispensabile stato membro della NATO con compiti strategici in tutto il mediterraneo, quale socio nel G7, il club dell’élite imperialista, riconosciuto potere del commercio mondiale. E come contributore netto al finanziamento dell’ UE l'Italia è finora al terzo posto dopo Germania e Francia.
Questo potere di rango nell’alleanza euro-atlantica però è caratterizzato da un fatto particolare. Proprio nel momento in cui il progetto dell’ unione monetaria europea prende il via, l’Italia dispone di una valuta estremamente debole. Nei due decenni prima della introduzione della moneta comune europea, la valuta italiana ha perso successivamente nei confronti del marco tedesco circa l’85% del suo valore. Nel 1970 1000 lire valevano all'incirca sei marchi, negli anni 90 appena un marco. L'ambizioso potere mediterraneo ha lo status non proprio lusinghiero di un tipico paese dalla valuta debole.
Questa perdita di valore clamorosa è la conseguenza del programma con cui l'Italia ha messo in atto la sua scalata economica in e tramite l'Europa e il mercato comune. Dalla fine della seconda guerra mondiale e ancora di più dalla costituzione della CEE, l'Italia estende la sua sfera di crescita e di interventi economici ben oltre il proprio territorio nazionale. Gli imprenditori italiani devono essere messi nella condizioni di guadagnare con le loro merci il denaro del mondo e particolarmente quello dell' Europa non solo su suolo domestico ma anche fuori, motivo per cui l'Italia è sin dall'inizio promotrice attiva dei progressi del sovra-nazionalismo europeo. Al contempo entra in vigore però un nuovo criterio di successo più esigente con il quale il capitalismo italiano deve fare i conti. Il capitale italiano deve misurarsi in volume e produttività con il livello del capitale internazionale. E sotto questo aspetto lo stato italiano è caratterizzato anche dal fatto che i politici ritengono troppo improduttive le fonti nazionali del potere per la gestione e il successo delle sue pretese. Quanto alla dotazione di capitale, l'Italia ha bisogno di recuperare: le sue aziende sono mediamente troppo piccole e l'economia nazionale è divisa tra un settentrione industrializzato e un meridione agrario improduttivo che giace inutilizzato dal capitalismo e che serve alla nazione solo come serbatoio di braccia a buon mercato per l’altra metà più efficace. Perciò gli impegni della politica italiana mirano sempre a una specie di rimonta industriale. L'intera nazione deve essere valorizzata e usata come fonte di ricchezza e potere per lo stato rendendola competitiva nella concorrenza degli stati sui mercati europei.
La rimonta capitalistica dell'Italia e il suo prezzo – una valuta in via di deprezzamento
Prima tappa di successo di tutti questi sforzi dopo la seconda guerra mondiale è il “miracolo economico” italiano che procura all'Italia lo status di una nazione di commercio solvente e degna di credito. Il fondamento di tale status è la garanzia politica del dollaro per la valuta italiana: gli USA muniscono gli alleati occidentali di prestiti e soldi validi a parità fissa rispetto al denaro mondiale incontrastato, il dollaro – e con una lira convertibile e riconosciuta sui mercati internazionali, i capitalisti d'Italia realizzano un surplus commerciale sia oltreoceano che sui mercati europei. Con questo potere finanziario e il lascito della politica economica fascista – gran parte dell'industria italiana come l'IRI si trova in mani statali – lo stato italiano affronta il potenziamento dell'Italia a potere industriale capitalista in Europa: Crea le condizioni di crescita per l'imprenditoria capitalistica fondando grandi enti pubblici, cioè le aziende di trasporto, telecomunicazione, autostrade, energia e la costituendo dei settori di sanità pubblica e istruzione. Assemblando imprese troppo piccole forgia complessi industriali su scala enorme dotati di altrettanto grandi capitali in tutte le industrie chiave (acciaio, chimica; l’Eni, operante su scala mondiale, che fornisce la nazione di energia a buon mercato). In questo modo costituisce mega capitali, con stabilimenti preferibilmente nel mezzogiorno arretrato in termini di produttività capitalistica.
Lo strumento decisivo all'interno di questo rilancio nazionale è la mobilizzazione del credito nazionale. In primo luogo, è la politica a controllare il capitale finanziario nazionale, su scala nazionale e regionale: le grandi “banche di interesse nazionale” e il sistema delle piccole banche popolari e casse di risparmio distribuite su tutto il territorio sono messe al servizio della creazione di credito che va impiegato per la costruzione e l'ampliamento del capitalismo nazionale. In secondo luogo, è lo stato stesso a fondare nuove fonti di finanza come la cassa per il mezzogiorno che accelerano la capitalizzazione dell'agricoltura e lo sviluppo delle infrastrutture.
La svalutazione e l'annullamento di capitale, che incombe per la prima volta con la crisi degli anni '60, cioè la contrazione del capitalismo che sarebbe invece da potenziare, non è ammessa da parte dello stato italiano – grandi aziende che cronicamente sprofondano in rosso sono mantenute a furia di sovvenzioni pubbliche, il personale inattivo, ricevendo pagamenti sostitutivi al salario (cassa integrazione), è mantenuto nello status di salariati a chiamata. E il potere statale neutralizza le lotte di classe nel nord industrializzato ampliando lo stato assistenziale.
Lo stato continua a puntare sul suo programma: è lui a sostituire il successo mancante del suo capitalismo impiegando il proprio budget. A tale fine si indebita progressivamente nella propria valuta, incurante del gettito fiscale. Gli istituti nazionali di credito sono tenuti a comprare i titoli di stato e restano solventi depositandoli presso la banca centrale in cambio di erogazione prestiti. Tutto quello che non viene comprato in questo modo viene direttamente comprato dalla banca centrale, la quale oltretutto concede allo stato uno scoperto illimitato. Lo stato e il suo potere di garantire per l'illimitata espansione dei mezzi finanziari mantengono il capitalismo della nazione nella sua nuova dimensione allargata, al prezzo però che il debito pubblico si raddoppia nel giro di pochi anni.
Se tutto questo porta a tassi d'inflazione di oltre il 20%, se il valore monetario dell'Italia si riduce in questa misura, allora è chiaro che le potenze di crescita, create a forza di credito e mantenute anche nei tempi di crisi, non sono riuscite in questo: la moltiplicazione del credito nazionale non ha prodotto la moltiplicazione di ricchezza nazionale che era lo scopo implicito e che potrebbe dare a questo montagna di soldi e debiti una giustificazione economica. Le chilometriche acciaierie di Taranto e le gigantesche industrie chimiche intorno a Brindisi non si sono trasformate in quelle macchine di successo capitalistico sui mercati internazionali per i quali la loro dimensione e produzione era calcolata. Non riescono a vendere le merci con profitto aumentando la ricchezza di capitale nazionale nella misura in cui lo stato aveva accumulato soldi e credito.[ 5 ]
Il conto di quel capitalismo di stato che si manifesta in un tasso d'inflazione cronicamente superiore[ 6 ] rispetto all'estero capitalistico, l'Italia lo riceve nei primi anni '70. Sul mercato dei cambi internazionale, dove a partire dalla fine dei tassi fissi del cambio con il dollaro si stabilisce il valore delle valute secondo l'interesse commerciale nei loro confronti, il tasso dei cambi della lira scende rispetto alle altre maggiori valute, anche con scatti disastrosi accompagnati da brutte conseguenze. Nel giro di pochi anni, l'Italia attraversa periodi di crisi profondi della valuta e della conseguente fuga di capitali; gli USA obbligano le loro aziende a limitare per qualche tempo l'erogazione di prestiti alle aziende statali italiani e concedono, come anche la Germania, i crediti strettamente necessari solo in marchi tedeschi o in dollari; una volta l'Italia lascia per breve tempo l'unione doganale della CEE al fine di erigere delle barriere daziali unilaterali: l'affidabilità creditizia e la solvibilità dell'Italia sono precarie sulle piazze internazionali perché il suo bilancio di crescita e indebitamento è negativo rispetto ai bilanci realizzati dalle economie estere. La pretesa per la quale viene impegnato tutto il capitalismo pubblicamente alimentato, cioè di guadagnare contro le altre nazioni il loro denaro disponendo in tale modo di moneta mondiale e causando una crescente richiesta della propria valuta – questa pretesa non si è realizzata in misura soddisfacente.
D'altra parte, l'Italia può vivere con questa svalutazione che, in una certa misura, fa parte della base operativa durevole, anche se traballante, che negli anni 80 con l'inflazione e cambi in calo frutta tassi di crescita reale.[ 7 ] In primo luogo la svalutazione della lira ha l'effetto di un deprezzamento sui mercati esteri limitando in qualche modo il danno; così il disavanzo della bilancia commerciale è contenuto.
In secondo luogo, la politica di bilancio italiana rimane capace d'agire nonostante il deprezzamento della lira perché e in quanto lo stato italiano riesce ad aumentare la massa del denaro e a conservare lo status di un potere dalla affidabilità creditizia, che comunque emette qualcosa come una moneta, che è riconosciuta e commercializzata sulla piazza internazionale. E l'Italia deve questo status anche a una garanzia politica, quella dei partner e concorrenti europei, e cioè alla sua appartenenza allo SME. Per motivi di strategia monetaria, gli stati d'Europa hanno instaurato tra 1979 e l'introduzione dell'Euro 1999 il sistema monetario europeo: si impegnano reciprocamente a correggere su scala europea le oscillazioni dei cambi, prodotte dagli operatori di cambio quotidianamente come risultato della concorrenza monetaria infra-europea.
Tutti gli stati dello SME appoggiano le valute deboli creando in tal modo più o meno tassi fissi di cambio entro strette bande di oscillazioni. Paesi dalla valuta debole come l'Italia devono essere sostenuti per poter continuare gli affari, perché la loro moneta è continuamente minacciata di rovina. É per questo motivo che lo SME garantisce loro l'emissione di una valuta che possa renderli solvibili nei mercati europei, almeno fino a che essi reggono con la debolezza monetaria. É infatti una garanzia che ha un prezzo: la limitazione dei danni tramite i cambi “in ribasso” non è possibile con la parità SME; e per il continuo sostegno al tasso di cambio concordato, la Banca d'Italia è obbligata a impiegare il tesoro di valuta estera per comprare la propria moneta – a volte in una quantità tanto pericolosa per il patrimonio che l’Italia riesce a sopportare il regime SME solo a furia di eccezioni, ad esempio bande di oscillazioni più larghe. Più volte la lira viene svalutata al interno della SME nei confronti delle altre valute, secondo le condizioni sui mercati monetari – prova inequivocabile che la moneta italiana, dopo 30 anni di EU/CEE, non è di pari importanza della valuta di riferimento dell'Europa, il marco tedesco.
Il calcolo dell'Italia con l'Euro – il salvataggio dalle sue miserie monetarie...
Quando al inizio degli anni 90 finiscono sull'agenda i progressi del supra-nazionalismo in maniera vincolante per tutti – il mercato interno è instaurato e l'introduzione dell'Euro è deciso – l'élite economico-politico d'Italia è sicurissima: la nazione non solo ci sta, ma si fa fautore attivo di questi progressi. L'Italia, che ha la sua base vitale nell'UE, vuole e deve approfittare della prospettiva collettiva di crescita alla quale mira lo smantellamento di tutte le riserve, restrizioni e sovvenzioni nazionali che sono state erette per la tutela dell'economia e finanza domestica. La libera e sfrenata concorrenza dei prezzi su un unico mercato dove è esclusivamente la produttività del capitale a decidere su successo e insuccesso è concepita come strumento per generare crescita in tutta l'Europa, contro gli altri stati del mondo; e il governo italiano è sicuro di disporre, con questo progetto, dei mezzi decisivi: Perché nella zona Euro
“ci sara un tasso d'interesse stabilito in comune accordo trai i paesi e tramite il fatto che le economie delle singole nazioni convergeranno e si trasformeranno strutturalmente, ci sara una simbiosi fra economie forti e deboli. Non vuol dire però che in questo ambiente non sarà permesso ad una nazione di assumere un deficit per promuovere il progresso economico.” (Il Ministro degli Esteri Colombo 1992)
Proprio per la nazione “debole” l'Euro deve rivelarsi utile: il tasso d'interesse, cioè i costi dei prestiti per lo stato e l'economia, scenderà, la moneta comune è l'occasione imperdibile di porre fine alle notorie strette con cui il paese deve fare i conti con la sua valuta in continuo ribasso e con gli attacchi alla sua solvibilità e affidabilità creditizia; in più ci si potrà liberare dalle pressioni della Bundesbank che decide con i tassi d'interesse sul destino del budget italiano. Questo il calcolo.
In cambio di questo, la rinuncia alla sovranità sulla lira sembra un prezzo accettabile. Perché l'idea è che l'Italia possa agganciarsi – almeno questo è l'ideale della 'convergenza' – ai paese superiori dell’Europa settentrionale. Le differenze tra le “economie forti e quelle deboli” dovrebbero livellarsi, se si usa una moneta comune. Un calcolo interessante da parte della politica italiana: non solo l'Italia si salverà, anzi, si rinforzerà nei confronti di Germania &co, proprio perché con la nuova moneta stabile ottiene le condizioni migliori per un rilancio conseguendo maggiori successi. E questa nuova moneta, – Colombo ne fa cenno verso la fine della citazione – l'Italia è determinata a impiegarla. Vuole usare l'Euro per il finanziamento di quei deficit nel budget che la lira non gli permette di finanziare per mancanza di credibilità. Con l'indebitamento in Euro ci si aspetta che arrivi “il progresso economico”, insomma che si riesca a raddrizzare l'economia italiana.
…. muta in crisi nazionale: adesione a rischio
Non c'è da meravigliarsi troppo che l'Italia, cosi come altri paesi, è fallita nell’ottenere, in “zona” Euro, le sperate libertà per quanto riguarda il deficit. Per l'Italia si tratta della partecipazione a un progetto definito dalla Germania. Il suo intento euro-associativo si imbatte, nella figura dei parametri vincolanti di Maastricht, in una procedura d'ammissione che esige non poco dal candidato. L'ingresso nell'unione monetaria diventa una gara di qualificazione per raggiungere la sponda di salvezza dell'euro, cosi come risulta definita dai successi della Germania nella concorrenza economica. Lo stato tedesco dal marco forte non pecca di modestia quando vuole impiantare, con la figura dei parametri di Maastricht, nella nuova moneta una specie di garanzia di stabilità e quindi di successo: gli stati che gestiscono insieme la nuova moneta devono prima provare di meritarla dimostrando la propria solidità finanziaria. In linea di massima, gli stati d'Europa dovranno poter cavarsela, come base del loro potere, con le tasse scremate dalla società attiva più un altro 3% di debito pubblico nuovo. Con un 60% di valore assoluto di debito in relazione ai risultati economici complessivi e con una rata d'inflessione piuttosto bassa nel ambito europeo, devono dimostrare che l'uso del credito, sia privato che pubblico, ha generato una crescita di capitale che a occhio e croce è paragonabile a quella tedesca.
Davanti a questi parametri di successo, conditio sine qua non d'ammissione alla impresa monetaria europea, l'Italia fa brutta figura con le sue cifre, cioè con la sua maniera di mandare avanti la baracca con il 120% di debito pubblico e la moneta debole, garantita politicamente ed esposta a inflazione. Nel settembre “nero” del 1992, i mercati finanziari svalutano la lira in un colpo del 25%; gli interessi creditizi per l'Italia salgono in maniera esorbitante; l'obligo di intervento nello SME porta la banca centrale italiana sull'orlo dell'insolvibilità in valuta estera, di conseguenza avviene l'uscita dallo SME. Questo è la dichiarazione fallimentare che l'Italia non possiede i presupposti all'adesione, non riesce a soddisfare i parametri SME che tutti i paesi candidati devono esaudire prima dell'adesione. Il giudizio dei mercati sull'Italia è chiaro: non idonea per l'Euro. Tutta la nazione insieme alla sua economia definitivamente non fa parte delle risorse di successo europee, anzi, si rivela di essere inutile e di peso per la futura moneta comune, non perché il debito dell'Italia ammonta a 2000 bilioni di lire – la Germania ha già accumulato di più a quel punto – ma perché, in relazione a quel debito, è stata realizzata troppo poca ricchezza.
Nella classe politica, questo dilemma della nazione italiana fa esplodere una lite violenta, una lite come si è soliti vedere in politica: la casta dichiara se stessa responsabile della diffidenza manifestata dai mercati e dai fautori autorevoli dell'Euro confessandosi politicamente e moralmente incapace di garantire il nuovo percorso dell'Italia verso il successo. L’ Italia é stata governata male, è l'autoaccusa che manda in frantumi il quarantennale consenso sul modo italiano di esercitare il potere economico-politico. Il sottogoverno, quel connubio tra i politici della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista Italiano e di una borghesia nazionale in cui - trasversalmente e al di là di tutti i risultati elettorali e delle leggi ufficiali - si decide con gli inciuci la politica attuale, i finanziamenti ai partiti e i rifornimenti delle aziende pubbliche con soldi pubblici, questo sottogoverno va insanabilmente a monte.[ 8 ] La giustizia scatenata dalla politica si fa carico del giudizio negativo su tutto l'apparato politico che ora passa per moralmente corrotto e viene più o meno criminalizzato. I magistrati e giudici del paese esigono “mani pulite”, ma scoprono nient'altro che tangenti scambiate tra politici e capitale e cacciano, per atti di corruzione, dagli incarichi quasi tutta la casta della DC e del PSI; già allora – e questo ricorda in un certo senso l’oggi – doveva subentrare una sorta di governo tecnico per superare l'emergenza pubblica.
I governi seguenti affrontano la situazione in modo offensivo – radicalizzando l'allineamento della nazione alle direttive impartite in vista di una gestione politico-economica in conformità con l'euro e rimodellando la nazione: lo stato deve poter vivere della sua economia e non l'economia delle sovvenzioni statali! Sotto il dettato del risparmio che ne segue, tutte le condizioni abituali vengono riviste. L'Italia può vantarsi dell'onore di essere il primo paese, all'interno del “modello sociale Europa”, ad attuare riforme durissime che sgravano il budget pubblico dalle esigenze dei pensionati, pazienti etc. (riforma pensionistica in tre tappe, rincaro dei servizi sanitari etc. etc.).[ 9 ] Si rovista in tutta la società alla ricerca di nuove fonti di entrate. Al fine di dimostrare quanto sia importante per il paese la sottomissione ai parametri d'ammissione, l'Italia delibera ad esempio un proprio contributo straordinario per l'Europa, detto Eurotassa. Lo stato abbandona la pretesa di impiegare il proprio credito per potenziare l’economia nelle regioni sottosviluppate e di sostenere i grandi capitali – le grandi aziende di stato IRI, ENI etc. vengono liquidate un po’ alla volta e privatizzate con il compito di diventare competitive. La cassa per il mezzogiorno è ufficialmente sciolta. Per quanto riguarda la lotta di classe italiana, tale emergenza statale comporta un beneficio collaterale di non poco conto per lo stato e il capitale. I grandi sindacati condividono il programma “adesione all'euro” facendosi ridurre, sotto la pressione delle difficoltà statali, a parti sociali che si fanno coinvolgere in maniera costruttiva nell'abolizione del livello salariale nazionale. La scala mobile, cioè l’adattamento annuale, stabilita contrattualmente negli anni '70, al tasso d’inflazione viene definitivamente eliminata, la retribuzione contrattuale collettiva viene divisa in una componente di base più bassa e un assegno variabile e dipendente dai risultati. Interventi in grande stile contro la mafia e la corruzione sottolineano la volontà inesorabile del potere di fare pulizia nella società.
Qualunque “cifra” risulti in materia di riduzione dell' indebitamento, di realizzazione di un avanzo primario, di inflazione etc., alla fine conta un cosa sola: il programma di risanamento che dura un lustro sarà accettato o meno come la prova attendibile della volontà politica dello stato italiano di non indietreggiare davanti a alcun sacrificio nazionale per assolvere alle direttive europee per una stabile moneta comune.
Il calcolo con l’adesione all’euro paga: il rating dell’Italia sale, gli interessi e con loro anche i costi dell'indebitamento pubblico scendono a un livello di pochi decimi di percentuali sopra i titoli tedeschi, i dubbi sulla capacità italiana di rifinanziamento e solvibilità sono soffocati. La montagna di debiti di 2500 mila miliardi di lire a rischio si conferma, quasi di punto in bianco e solo tramite il passaggio della moneta all’euro, come un solido patrimonio finanziario nonostante il debitore sia lo stesso e nonostante il suo fondamento, la nazione italiana e il suo apparato capitalistico, non sia divenuto con il programma di risanamento più ricco e potente di una sola lira. La nuova affidabilità creditizia dell’Italia è un prestito, concesso dalla decisione monetario-strategica delle undici nazioni dell’euro in base alla quale non solo alcun debito accumulato sarà annullato ma tutti quanti debiti devono partecipare alla nuova valuta affinchè il lancio della nuova moneta globale sia il più imponente possibile. Tutti i debiti di tutte le nazioni dell’euro devono avere il carattere di un patrimonio dalla remunerazione sicura perché gli stati sovrani, con il loro patto di stabilità, si sono vincolati a una gestione puramente capitalistica della nuova moneta comune. D’ora in poi il debito italiano fa parte di una prospettiva di crescita europea sulla quale il capitale finanziario mondiale può speculare. Su questa base garantita dall’Europa, il debito italiano cresce nell’arco di quasi dieci anni da 1,3 a 1,7 bilioni di euro – senza perdere la fiducia presso gli investitori internazionali: documento impressionante di una simbiosi tornata credibile tra finanziamento pubblico e crescita del capitale finanziario.
Senza dubbio complesso di decisioni della politica europea, l’adesione all’euro, ha salvato la repubblica italiana tirandola fuori dalla sua precarietà. Di colpo si è sbarazzata delle sue note miserie monetarie e finanziarie. Certo, che cosa significhi la gestione dell’euro per la sua tradizionale economia, è un altro paio di maniche. Lo stato italiano ha esposto le sue fonti di ricchezza a una concorrenza del tutto nuova per l’arricchimento. Il suo capitale, largamente privatizzato, può e deve d’ora in poi dare da farsi su un mercato europeo e mondiale liberalizzato e dalla moneta stabile, dalla valuta forte.[ 10 ]
I beneficiari immediati sono le banche e le assicurazioni italiane che, tramite le privatizzazioni e le fusioni avviate istituzionalmente, sono cresciute assumendo dimensioni europee: il loro capitale e gli attivi, consistenti in gran parte in titoli di stato italiani – risultato della collaborazione precedente tra le banche d’affari, la banca centrale e il governo –, acquistano, di pari passo con la credibilità del potere politico, una nuova qualità: il capitale finanziario italiano gode di credito efficace – e non solo al fine della concentrazione del capitale italiano in ambiti singolari per il compimento della privatizzazione degli enti pubblici iniziata negli anni 90. Sulla base della garanzia indotta dall’euro, le banche europee approfittano infatti del mercato bancario italiano, le banche italiane e le assicurazioni fanno il salto di qualità piazzandosi tra il fior fiore delle finanziarie e contribuendo sostanzialmente alla crescita extraterritoriale del capitale bancario che anni dopo entra in crisi. Unicredit o Generali riescono a espandersi nel mercato tedesco ed esteuropeo dei servizi e della finanza, tanto che anche i clienti bancari bavaresi devono abituarsi al fatto che la loro veneranda banca è diventata una succursale di un gruppo finanziario italiano. Il capitale finanziario italiano rilascia prestiti in quantitativi del tutto nuovi e di nuova qualità, ingenera risorse finanziarie in Italia e altrove. Anche qualche impresa energetica italiana, che grazie al monopolio pluriennale di corrente, gas o carburante ha accumulato capitale fino alla dimensione di un global player, approfitta ora del potere della moneta euro per aprirsi nuovi fonti di guadagno fuori Italia, sui nuovi mercati dell’energia dal Sudamerica fino a Siberia. Laddove, invece, bisogna competere con i costi unitari di lavoro e i prezzi delle merci, la situazione è un po’ diversa.[ 11 ]
Il capitale industriale che agisce sul mercato interno o mondiale ottiene di colpo con l'euro un nuovo mezzo del suo successo commerciale. Quel mezzo, però, rappresenta anche una nuova condizione per ogni successo operativo. In primo luogo dispone di una nuova moneta efficace e stabile come punto di partenza e terminale per gli affari oltrefrontiera e, quindi, anche di finanziamenti creditizi a costi minori; inoltre il suo potere di accesso a materie prime e semilavorati da comprare all’estero è accresciuto. D’altro canto – e questo è la dura condizione di una moneta comune su un unico mercato comune – tutte le merci italiane, in quanto risultati della redditività generata dal complesso delle particolarità nazionali (prezzo del lavoro, volume e produttività del capitale, tasse, infrastruttura, spese energetiche etc.) devono reggere l’immediata concorrenza commerciale con le merci di tutte le altre regioni d’Europa, tra le quali anche le più produttive per unità capitale. Il costo salariale unitario nazionale assurge a decisivo criterio di comparazione in tutta l’Europa; e, al di fuori di Eurolandia, i prodotti degli esportatori italiani aumentano di prezzo, non appena la moneta viene rivalutata rispetto ad altre valute mondiali.
La cosiddetta Terza Italia ( piccole e medie imprese dalla capitalizzazione di tutto rispetto), diventata la spina dorsale industriale nel settentrione della nazione, subisce delle sconfitte nei settori ad alto impiego di manodopera della industria leggera. E questo perché all’estero le relazioni competitive si sono trasformate in punto di costo salariale unitario a scapito dell’Italia. Nell’ambito della convergenza europea e della mobilità sconfinata del capitale, l’economia italiana si vede sfidata da numerosi siti produttivi concorrenziali a basso prezzo dove si combinano il capitale più moderno con la manodopera a buon mercato. Il livello salariale pure bassissimo dell’Italia fa fatica a competere con i salari pagati in Polonia, Slovacchia, Turchia o Cina. All’inverso, la scatenata comparazione internazionale dei salari, in combinazione con la potenza dell’euro sul mercato globale del capitale, permette alle numerose imprese medie italiane un nuovo calcolo, in cui il loro successo privato e il successo nazionale imboccano strade separate: partendo dai siti italiani e a scapito di questi, esportano capitale in euro, attrezzano siti produttivi in tutto il mondo e riforniscono il mercato globale con merci designed in Italy, ma non made in Italy. Sommando tutto questo, la succursale italiana dell’euro registra un saldo di capitale negativo.
Anche l’unico gruppo automobilistico rimasto, la FIAT, scorpora siti produttivi portandoli all’estero, non per internazionalizzare il suo exploit, ma per compensare gli svantaggi dei siti di Palermo, Melfi, Torino e Milano: FIAT vive sostanzialmente dei siti produttivi a bassi costi in Polonia, Serbia e la Turchia; di contro, nessun grande gruppo industriale straniero investe cospicue somme in Italia. Appena però qualche capitale europeo o americano ha l’intenzione di entrare in aziende statali ora privatizzate come ad esempio la Telecom Italia, si fa vivo il sospetto che questo succeda a carico dell’economia italiana. La paura di una “colonizzazione” di industrie chiave saccheggiate dalle cavallette straniere testimonia la consapevolezza delle debolezze competitive delle aziende in via di un' OPA; di conseguenza, la costituzione di holdings in possesso dello stato – mentre ufficialmente la politica rimane estranea – sostituisce la protezione di un tempo.[ 12 ]
Alla fine, il governo tedesco Schröder vara, con l'Agenda 2010, un programma di lotta contro il prezzo nazionale del lavoro attaccando i concorrenti europei sia con la superiore grandezza di capitale che con i salari bassi. E lo fa con un tale successo (nel 2007 il cuneo fiscale della Germania scende al livello italiano) che il capo del BCE Draghi, nella sua retrospettiva, può rinfacciare all’Italia e ad altri paesi in crisi, con diagrammi a colori, che i loro salari nazionali rispetto alla Germania sono saliti nonostante lo stato italiano avesse impiegato il suo potere sulle imposte e le trattenute salariali per abbassare il livello salariale.
Una deindustrializzazione dell’Italia però non è avvenuta, nonostante “la debolezza strutturale della sua economia”, nonostante cioè il capitale mancasse della grandezza necessaria sul mercato interno. Chi viaggia da Torino a Trieste può rendersene conto. L’Italia sotto l’euro cresce – complessivamente e su scala nazionale però troppo poco in confronto con quelle nazioni che hanno alzato l’asticella, e soprattutto: troppo poco per le ambizioni che l’Europa insegue con l’euro. Per questo motivo lo stato italiano risparmia mentre i suoi debiti crescono. L’euro e il patto di stabilità gli hanno accollato il permanente compito politico di far combaciare le sue esigenze finanziarie destinate al compimento delle funzioni pubbliche con i limiti di deficit europei; e questo significa per l’Italia inesorabilmente: riduzione della quota di indebitamento statale. In relazione a tutto ciò, lo stato italiano nel suo insieme si rivela troppo costoso. Con le diverse riforme federali lo stato autorizza le regioni a riscuotere più entrate fiscali e a svolgere più funzioni statali da cui lo stato centrale a Roma si congeda. Con ciò lo stato libera le regioni virtuose dai contributi di solidarietà per le regioni povere, che devono arrangiarsi con quello che hanno – oppure che non hanno più. L’Italia cementa, sotto il regime dell’euro, la sua divisione in un meridione sottocapitalizzato e un settentrione efficiente e con ciò cementa il suo cronico deficit di prestazioni nazionale. In combinazione con la lotta permanente per un bilancio conforme ai criteri di Maastricht, si realizza progressivamente una rimarchevole distruzione delle condizioni di crescita generali che viene visto in Europa come il tipico malgoverno italiano: infrastrutture di base con strade regionali, smaltimento dei rifiuti, alimentazione elettrica, sanità pubblica e dotazione di scuole e università deperiscono, soprattutto nelle regioni a sud di Roma, raggiungendo uno stato che secondo le affermazioni della OCSE è da collocare poco al di sopra il livello del Terzo Mondo e che il capitale moderno, che pretende di trovare condizioni di stabilità a bassi prezzi, preferisce evitare.
Quest’opera distruttiva indotta dallo stato consegue però un successo indubitabile: l’indebitamento complessivo italiano scende da 120 a 102% del PIL; il deficit corrente sta adempiendo per anni al criterio del 3%, non (molto) peggio dei paesi leader Germania e Francia, tanto più negli anni di crisi 2002/2003 quando questi si permettono di ammorbidire il patto di stabilità. E se contro l’Italia la UE apre la procedura d’infrazione per i disavanzi eccessivi perché il suo bilancio “comporta rischi per la sostenibilità delle finanze pubbliche a lungo termine” (commissione UE 2005 per l’avvio della procedura per i disavanzi eccessivi contro l’Italia), allora lo stato mediterraneo si trova in buona compagnia. Ironicamente, la commissione UE riconosce nel primo anno della crisi finanziaria 2008 gli sforzi di consolidamento italiani archiviando la procedura d’infrazione, con la piccola, ma non insignificante nota a piè di pagina, che i debiti complessivi dell’Italia sono sempre troppo alti, anzi, i più alti nell’intera Europa, per cui l’Italia deve finalmente crescere di più! Una riserva ufficiale di comodo da parte dell’Europa nei confronti dell’Italia che però non infastidisce molto il capitale finanziario prima della crisi: spread di 0,5%, A+-Rating…
All' inizio della crisi finanziaria 2008, quando sono in atto, nell'ambito del fallimento della banca Lehmann, le svalutazioni dei derivati immobiliari e il fallimento di banche europee, l’Italia si presenta in fondo abbastanza bene tra le grandi economie globali, almeno secondo l’opinione degli esperti finanziari: le banche italiane sono ed erano meno esposte nel mercato dei derivati di quanto lo sono le banche tedesche, francesi oppure inglesi; la crisi le colpisce meno. Lo stato non ha bisogno di un programma di salvataggio che andrebbe a gonfiare i debiti pubblici, il debito pubblico si trova in gran parte nelle stesse mani del capitale finanziario italiano e l’indebitamento nazionale, cioè quello privato e pubblico insieme, è più basso che altrove, perché i cittadini italiani hanno risparmiato parecchio nel passato. Anche il fatto che l’economia italiana, nel suo insieme, decresce di 6% nell'anno di crisi 2009 facendo crescere solo per questo motivo la quota del debito pubblico, non è di per sé un privilegio dell’Italia in crisi. Tutte le nazione descrescono a causa della crisi e parecchi altri paesi dell’Eurolandia registrano un aumento del debito dovuto ai tentativi di salvare le banche.
Però è tutto inutile: la combinazione di speculazione finanziario-capitalistica e la concorrenza degli stati alle condizioni di crisi, capeggiata dalla Germania, effettuano ora un distinguo tra gli stati d’Europa. Sono valutati diversamente, a secondo la loro capacità di sostenere i debiti, e il giudizio sull’Italia è netto: scarsa affidabilità creditizia! Il governo italiano si affanna a dimostrare il contrario. Nella gestione del primo incidente creditizio europeo, la Grecia, si professa fortemente garante dell’euro, però con una certa sproporzione tra volontà e capacità. Sollecitando un celere e comprensivo pacchetto d’aiuto per la Grecia, l’Italia sottolinea la sua posizione di creditore, chiedendo inoltre, come contrapartita greca, un rigido regime di austerità. Dall’inizio della crisi del debito sovrano, il governo insiste sul fatto che l’Italia è “parte della soluzione, non parte del problema”. E nel contempo preme, in opposizione alla Germania, per l'instrumentalizzazione delle finanze del FMI, perchè le chiamate in garanzia finanziaria connesse alla salvezza dell'euro in fondo sono oneri insopportabili per l'Italia che minano il suo status di nazione creditrice in Europa. In una conversazione informale con La Repubblica il ministro dell’economia e delle finanze, Tremonti esprime chiaro e tondo la situazione:
“L'Italia non è la Grecia, ma sul mercato interno e internazionale il Tesoro si gioca l'osso del collo per piazzare in media un miliardo e mezzo di titoli di Stato al giorno. Quest'anno, tra Bot e Btp, dovranno essere collocati 480 miliardi di euro: una cifra da far tremare i polsi. Tutto questo per l'Erario si traduce in una "tassa" fissa pari a oltre 8 miliardi di interessi passivi: tanti, per un bilancio pubblico gravato da un debito che viaggia a grandi passi verso il 120 per cento del Pil. E poi, in queste condizioni basta sbagliare un annuncio di politica economica, o tarare male una misura di sgravio fiscale, per far fallire un'asta. Con tutte le incognite del caso, dalla bocciatura delle agenzie di rating fino al ‘rischio-default’ del Paese.” (La Repubblica, 10.1.2010)
Dover smentire il fatto che il salvatore Italia si trova nella stessa barca del paese fallito e da salvare la dice lunga! Una illuminante ammissione del ministro delle finanze sullo status precario del credito italiano e su quanto i dubbi dei mercati finanziari siano accresciuti riguardo il debito sovrano europeo come investimento sicuro. L'acuirsi della crisi dell'euro sull'Italia come danno di massima gravità ipotizzabile per l'euro dà il via esattamente a quelle contromisure che l'Italia dieci anni addietro ha firmato nella forma dei regolamenti per l'euro.
Ora, che in Europa non cresce più niente, ci pensano i signori della solvibilità internazionale a mettere in pratica questo risultato della crescita europea, in una maniera congrua all'epoca dell'euro. Non ci sono più le diverse monete europee dalle quali si fugge o nelle quali si investe, e in cui si bilanciano i diversi (in)successi motivando la loro durezza o debolezza. C'è solo un'unica moneta europea. Ma ci sono anche risultati contrastanti nei paesi membri dell’euro dove sono saliti i profitti o i debiti dei capitali. In Europa si continua nella contabilità nazionale, i singoli stati si differenziano tuttora in virtuosi e scadenti secondo la performance dell'economia sul territorio di ciascuno – e cosi le cose dovevano rimanere anche dopo Per questo i capitalisti finanziari, alla ricerca di investimenti sicuri, selezionano gli stati europei troncando definitivamente la fase della comune affidabilità creditizia europea: gli interessi per l'Italia aumentano, quelli per la Germania scendono. I mercati finanziari chiedono conto ai sovrani politici e ai loro debiti nella zona euro dei risultati della concorrenza realizzati sotto la loro regia. E lo fanno attenendosi esattamente a quel criterio che la politica europea, dalla nascita dell'euro come garanzia di stabilità dei soldi europei, ha ripetuto come un mantra: l'ammontare dei debiti in relazione alla ricchezza privata realizzata con questi stessi debiti. Tale criterio fa sì che i difetti politico-economici dell'Italia, stravecchi e non superati neanche nell'era dell'euro, si acutizzano: i debiti, rispetto a ciò che l'Italia riesce a realizzare col suo capitalismo, sono troppo alti. Questo fatto è una versione della verità politico-economica, conforme al sistema, e cioè che il debito sovrano in particolare e i debiti in generale non sono più ritenuti atti, nelle condizioni di crisi, a crescere come solido patrimonio pecuniario e a generare crescita capitalistica. L'Italia, con i suoi 1,8 mille miliardi di debiti, ha accumulato in eccesso questa sostanza precaria, rispetto alla sua potenza capitalistica. Il dubbio generale, causa la crisi, sull'equazione debito uguale patrimonio si traduce nell'interrogativo assurdo se sarà possibile ripagarlo e questo costituisce motivo per cui il retaggio di debiti dell'Italia, fin qui sostenuti come valore, finisce per essere visto con occhi critici. L'Italia perde la sua affidabilità creditizia e ciò che al inizio della crisi parlava in favore dell'Italia, ora si volge nel contrario: la massiccia quota di titoli statali nei bilanci delle banche italiane costituisce ora un particolare rischio per il sistema bancario italiano. Il loro credito non vale più niente, perchè il cedito dello stato non vale più niente. Diminuisce la potenza di rifornire il mondo degli affari del credito a condizioni favorevoli o di adempiere agli obblighi di pagamento esteri.[ 13 ]
Ora, nella crisi, la politica italiana prova sulla propria pelle il fatto che per l'euro ha abbandonato la sovranità monetaria e si è beccata il regime dell'euro: i mercati vengono meno al loro servizio di finanziamento dello stato; la strada per cui il potere statale si serve della propria banca centrale e dei suoi soldi è sbarrata. Ora tocca all'Italia farsi garante, con tutta la nazione, per la moneta e la sua relativa stabilità. Insieme ai programmi per ridefinire la strategia anticrisi a proprio favore – emissione di eurobonds, ricorso illimitato dei stati fallimentari a soldi della banca centrale europea, in breve, la socializzazione incondizionata del credito buono di cui l'euro come moneta e gli stati creditori tuttora godono – falliscono sia Berlusconi sia Monti. In primo luogo, l'Italia si vede inchiodata – come tutti gli altri stati in crisi – sul regime della BCE che nega alle nazioni l'accesso del potere politico al denaro centrale. Inoltre, l'Europa, spinta dalla Germania, si accorda su un patto fiscale che include un regime di gestione debiti e concede in futuro agli organi di controllo europei dei diritti di ingerenza di ampia portata. Proprio ora che l'Italia avrebbe più bisogno di una garanzia creditizia da parte dell'Europa, è costretta a qualificarsi per riguadagnare la sua affidabilità creditizia. Niente determina di più la politica italiana dello spread, la misura per la riconquista della euro-credibilità. L’Italia si batte per il suo status di potere sovrano dell’euro che – in qualità di ambizioso potere alleato – meriterebbe l’euro, come moneta mondiale, senza condizioni. E questo è – per dirlo a mezza bocca – un programma molto ambizioso. Il potere statale dimostra, attingendo massicciamente al bilancio e alla legislazione, di essere in grado di ridurre i costi che esso stesso causa al capitalismo italiano in modo che questo, come macchina di crescita, tornerà a garantire per i debiti sovrani – nota bene, ca. 2 bilioni di euro intanto, dunque debiti contratti in una moneta per il cui utilizzo proficuo i vincitori in Europa hanno stabilito i parametri e continuano a stabilirli. L’Italia vuole e deve dimostrare che merita l’euro in quanto nazione capitalistica vincente.
A questo proposito, sia Berlusconi sia Monti (e ora Letta) governano dal 2010, su scala nuova, sotto il dettato del risparmio.[ 14 ] La durezza ostentata da parte del potere politico nei confronti di circostanze patrimoniali tradizionali all'interno della nazione, è la dimostrazione che si è tornati a meritare la fiducia dei mercati. Il governo dei tecnici, nell’intenzione di valorizzare nuovi fonti di soldi, rastrella sistematicamente i redditi della sua società e scopre la proprietà immobiliare: se la maggior parte dei cittadini italiani non deve intaccare il reddito per pagare l’affitto, ecco la fonte di finanziamento, ancora non usata, dello stato: l’IMU, una nuova tassa sulla proprietà della prima casa, destinata ai comuni insolventi, che come le regioni non vengono più a percepire i finanziamenti pagati finora.[ 15 ] Monti attua una riforma fondamentale del regime pensionistico che termina di colpo il guazzabuglio di norme particolari e transitorie mandando, con migliaia di “esodati”, un segnale convincente al mondo del capitale finanziario. (…) Dall’altra parte, la riduzione degli affari dovuta alla crisi e l’impoverimento della popolazione creano nuove necessità di intervento che costano denaro. Bisogna organizzare e gestire la nuova indigenza delle masse. Con l’introduzione della nuova indennità di disoccupazione ASpI, l’Italia cambia il principio della gestione di disoccupazione di massa: da una parte, si limita la prassi statale di parcheggiare i licenziati delle grandi aziende nella cassa integrazione, con perdite di reddito comparativamente limitate, finchè hanno maturato diritti alla pensione – un costo eccessivo oramai per lo stato. Dall’altra parte, la crisi ha prodotto un esercito di poveracci disoccupati provvenienti dal mondo del lavoro precario che non hanno nessun diritto a qualsiasi assegno sociale. La nuova indennità di disoccupazione li riconosce come un caso normale di disoccupazione all’italiana concedendo anche loro delle prestazioni che li salvano dalla morte di fame.[ 16 ]
Il bilancio provvisorio dell’acrobazia italiana: le riforme, la conseguente diminuzione della solvibilità in tempi di restringimento degli affari, aggravano la crisi: le differenze nazionali si accentuano dato che la via fuori dalla crisi è dettata dalla UE che non prevede alternative. L’economia italiana si è ridotta dal 2009 di 5% p.a., i redditi medi sono scesi di 20% - l’Italia si sfascia risparmiando. La prova che l’Italia è costretta a fornire, dopo dieci anni di euro, arriva fino ai sacrifici per la stabilità della moneta che non guadagna più.
Il giudizio pubblico sulla crisi dell’Italia – sia nel paese stesso che all’estero – vede la situazione in un’altra luce: trascura il percorso oggettivo e i risultati politico-economici della concorrenza intra-europea e attribuisce la crisi italiana e il suo inasprimento alla politica sbagliata. Dichiara l’insuccesso economico un caso di fallimento politico, come se il successo di determinate nazioni non si basasse sulla sconfitta delle altre, e quindi una cosa che non dovrebbe essere, se il paese fosse governato bene e seguisse con determinazione una politica anticrisi.
Questo idealismo interessato non giunge a caso: Sono proprio loro, i detentori del potere politico, che hanno la libertà di organizzare e assestare tutte le condizioni della vita economica e ne desumono la competenza e la responsabilità per tutta la baracca. Cosi cadono nella sopravvalutazione di se stessi credendo di avere in mano anche i risultati di tutto questo fare economia, come se si potesse costringere, con la politica, il successo concorrenziale a compiersi.
Anche la classe politica italiana ha una qualche familiarità con questo generico “falso ideologico” della politica che poi fa da criterio di valutazione per il pubblico democratico: chiunque abbia governato negli ultimi decenni ha rivendicato di essere al comando di una nazione-guida in Europa. Il fatto che i mezzi per il successo della nazione non sono stati mai all’altezza delle pretese non è stato per nessun governo un motivo per rivedere le pretese, bensì di sentirsi spronati ad addattare i mezzi al criterio del successo, anche se non sono i vari governi a determinare questi criteri e i successi vengono sempre di più a mancare.
Perciò l’orgoglio col quale i dirigenti politici dei diversi stati membri del euro deducono il successo concorrenziale dalla loro dirigenza politica non fa al caso in tutti gli stati. Dipende molto dalla posizione nella competizione economica del paese se una Merkel può essere oggetto di invidia, allora la bugia della garanzia di successo politica è credibile, o se invece un Berlusconi fa la sua figura. L’inferenza dell’uso vincente del potere politico dal risultato del successo concorrenziale crea qualche problema in più a un governo che rincorre affannosamente le condizioni, cioè le direttive che i concorrenti europei impongono; che insiste, contro queste imposizioni, sulla propria libertà d’azione e si posiziona contro questa supremazia – per poi dover accorgersi quanto profondamente sia finito nella morsa degli accordi che lui stesso ha firmato, quanto oramai dipende dalle elargizioni europee dalle quali aspettava tante libertà.
Questo dramma dell’Italia non viene quindi discusso concentrandosi sui tormenti oggettivi della nazione, ma sui suoi politici. La miseria della situazione è dovuta alla messa in pratica di una politica misera e la politica misera a politici miseri. L’uscita dal dilemma dipende tutta da chi la pratica. E se tanto mi dà tanto, la crisi dell’Italia non conosce una causa ma colpevoli e falliti, e aspetta un salvatore. Cosi pensano e parlano anzitutto gli stessi attivisti della concorrenza politica, e poi gli osservatori pubblici e alla fine gli elettori; e non da ultimo, la borsa finanziaria serve a questo tipo di considerazione come conferma oggettiva quando anch’essa, il cui mestiere sono le ciffre di crescita, dà dei voti al personale del potere politico; e proprio gli speculatori, guarda caso, ritengono Berlusconi una figura poco affidabile che è troppo per i loro fragili nervi.
“Il nome di Berlusconi rappresenta soprattutto una cosa: interessi alti. Nelle scorse settimane, i mercati finanziari avevano discusso lo scenario di orrore Berlusconi in su e in giu.”[ 17 ]
Il solo risultato delle elezioni però documenta che anche le dimissioni del premier in carica da decenni non coincide con la data di scadenza storica che i suoi critici gli hanno appioppato – come prova definitiva che avevano ragione loro sin dall’inizio se questo personaggio anomalo faceva brutta figura, paragonato al loro ideale di statista serio.[ 18 ] Berlusconi comunque viene tuttora indicato come esempio del malcostume di discutere la crisi della nazione come dibattito sulla competenza del governo ridotta semplicemente a una questione di stile politico, all’attitudine e al carattere del personaggio.
Il salvatore d’Italia – come lo stesso Berlusconi si è modestamente autodefinito – ha fornito più di un assist a questo quid pro quo. Quando il magnate entra in scena, no certo da antieuropeo, nella crisi dramatica verso la fine della prima repubblica, è sicuro che l’Italia non solo ha bisogno del mercato interno europeo, ma sarebbe capace di ravvivarlo se solo lui liberasse il paese dalla zavorra politica e lo guidasse come un’impresa, secondo la logica sempliciotta: ciò che mi procura successo deve essere utile anche per il paese. Con Forza Italia fonda un movimento che riassume il programma di rilancio nazionale lapidariamente nel nome.
Questa pretesa politica che l’orgoglioso premier presenta suscita qualche sospetto oltrealpe. Ma anche all'interno della nazione Berlusconi provoca scetticismo: sarà proprio lui l’uomo giusto per rappresentare questa pretesa da tutti condivisa e realizzare la salvezza promessa? In questo senso, i suoi critici raccolgono le prove contro di lui. Appena salito al potere, il magnate si vede confrontato con l’accusa secondo la quale avrebbe ottenuto il suo successo imprenditoriale con la frode, assistito da una legislazione fatta su misura del suo imperio mediatico, e che vorrebbe privatizzare lo stato a suo piacimento. Lì dove crede di iniettare linfa nell’economia promettendo di farla finita con i presunti nemici dello slancio economico, quali burocrazia e diritto vigente, sfida la giustizia. Questa scopre un conflitto d’interesse e si vede chiamata in causa, come avvocato della sovranità statale, per salvare l’ordine pubblico che crede in pericolo, dal momento che il supremo funzionario, con i suoi loschi affari, non vi si attiene quando chiede per sé dei privilegi. Egli da parte sua, vuole solo il meglio per il paese, convinto com’è che le indagini della giustizia altro non sono che una congiura contro di lui, l’ostacolato salvatore della patria. Quando sbircia sotto le toghe rosse smascherando i comunisti dissoterra un’immagine del nemico che ha smesso il suo servizio nella storia d’Italia, il che però non gli impedisce di spiegare a sé e ai suoi fans che il mancato successo è dovuto al sabotaggio o che, in caso ci fosse, venisse sputtanato dal nemico interno. I suoi critici invece ritengono leso l'alto incarico se il premier non trova il tempo per governare per via di tutti i processi che gli augurano sul collo.
Se il cavaliere si mette in scena come leader carismatico dal pugno di ferro che l'Italia s'aspetta da tempo e che farà erigere l'orgoglio popolare, se installa una specie di partito alquanto particolare che non nasconde per niente questa finalità, sono i suoi critici a sentire la mancanza del tocco democratico delle campagne elettorali come è di uso solitamente. Passa come cattivo gusto che il Cavaliere sceglie la quota femminile di persona, secondo numero di reggiseno (e accondiscendenza). Lui stesso, e probabilmente anche i suoi elettori, vedono nella sua viriltà mirabile l'incorporazione di una potenza mediterranea. I suoi critici beffano che anche queste prodezze sarebbero un imbroglio, rese possibili con aiuti chirurgici e altri.
E cosi, i compatrioti avversi raccolgono le prove che questo personaggio è l’interprete meno addatto per la reputazione dell'Italia e se ne vergognano. Anzichè riposizionare l'Italia sulla scena internazionale, come promesso, facendo rispettare il paese, l'avrebbe resa ridicola davanti agli occhi dei potenti d'Europa e all'estero. Il fatto però che Berlusconi trovi tanto consenso all'interno del paese, se lo spiegano soprattutto con la manipolazione. Perchè il tattico del potere e populista piloterebbe la volontà del popolo attraverso i diversi canali della sua strapotenza mediale, quindi non lo abbindolerebbe soltanto, ma praticherebbe pure nell'abbindolare una concorrenza sleale. Mentre il popolo in fondo, se non fosse corrotto dal demagogo, sarebbe aperto alla ragione, o in altre parole, disponibile ad ulteriori sacrifici.[ 19 ]
Il centro-sinistra con Bersani (e intanto Letta) e Monti, formatosi in occasione delle ultime elezioni con lo scopo negativo di impedire Berlusconi, come ragione intende la politica delle riforme strutturali, del consolidamento e del risparmio imposta dalla UE sotto l'egida della Germania, anche se impone all'Italia sacrifici dolorosi.[ 20 ] Cosi tiene conto della dipendenza dell'Italia dall'Europa come unica possibilità di trovare l'uscita dalla crisi e riconquistare la libertà d'azione. Per questa rotta pro-europea, il governo tecnico Monti incassa un abbassamento degli interessi da parte degli speculatori finanziari senza che questo però abbia cambiato granché della situazione drammatica. Berlusconi, dato per morto, prende al volo l'occasione per risorgere come salvatore della patria e chiedere che occorre prendere più libertà d'azione per portare il paese fuori dalla crisi. Ora, che l'equazione di successo Italia-Europa è andata a rotoli, il cavaliere polemizza contro la dipendenza della nazione dall’Europa vedendo proprio in questo la disgrazia dell'Italia, disgrazia che per lui più che una realtà è una calunnia. Perciò fa propaganda per puntare i piedi, con il dovuto orgoglio nazionale, contro Bruxelles e il “dettato d'austerità teutonico”, denunciando i suoi avversari politici come succubi della BCE. Questi rispondono per le rime sostenendo che il suo tuonare contro l'Europa siluri tutti i tentativi affannosi di riconquistare, in questa situazione molto precaria, la fiducia dei mercati finanziari e delle nazioni leader.
Ogni schieramento può magari imputare all'altro il disastro politico della nazione, ma in un'ottica oggettiva sono due facce della contraddizione: il perdente della concorrenza economica deve affermar di essere il potere sovrano nella concorrenza acutizzata dalla crisi spacciando l’allineamento ai parametri di successo imposti dal potere superiore come uscita dalla propria crisi. Di conseguenza, la classe politica litiga sulla domanda, esistenziale per il paese, se il percorso europeo finora imboccato dall’Italia ancora paga – senza che una delle parti possa offrire un’alternativa che non comporti ulteriori danni. Per questo, le elezioni non sono la consueta designazione del personale politico per decidere quali figure amministrino la ragione di stato già fissata nei fondamenti. I partiti stessi però interpretano il tiremmolla tra orgoglio nazionale e dipendenza come controversia per il management politico giusto e il suo organico.
E l’idealismo del buon governo – in fin dei conti, il ripristino della buona reputazione della politica – sta a cuore al terzo schieramento che con particolare radicalità si nega alle due alternative, il M5S di Grillo. Questo movimento non ha un programma positivo e impegnativo come alternativa, nemmeno una critica articolata della politica fallimentare della nazione al di fuori del fatto che è fallita. Ciò che unisce questi patrioti delusi di diversi orientamenti politici o ideologici è la convinzione che l’intera classe politica italiana è fallita ed è colpevole delle condizioni disastrosi del paese. Quando i grillini elencano i singoli punti – per esempio: la burocrazia impedisce la costituzione di aziende, i cittadini sono in balia dello stato e delle autorità, il paese è in balia della austerità europea etc. – è difficile distinguerli da Berlusconi o da altri partiti. La linea di separazione che tracciano radicalmente – specie contro Berlusconi, per loro il politico come nemico per antonomasia – vuole fare sul serio con l’autodepurazione della casta politica promessa agli inizi della Seconda Repubblica, cioè nei primi anni novanta. Secondo la logica che la vecchia casta non voleva mai abolire seriamente la corruzione e gli inciuci perché ciò le permette di fare vita da papi, un vero reset funziona solo senza questa casta. Il rigoroso e finora fermo rifiuto di Grillo di entrare in coalizione con i vecchi partiti non solo mette in conto l’ingovernabilità del paese, anzi, come dimostrazione che la vecchia classe politica destinata comunque e irrimediabilmente alla giusta autodistruzione va finalmente eliminata, vuole piantare il chiodo della bara. Per la riabilitazione della politica, tutti quelli che facevano parte della vecchia classe politica sono bruciati. L’inimicizia di Grillo nei confronti della politica dell’establishment che pare essere tanto negativa nel suo carattere di rifiuto, è, in essenza, molto costruttiva. La credibilità del politico e della politica è per Grillo il supremo comandamento che deve fare guarire l’Italia; questo ideale metodico-moralistico del buon governo è l’anima del suo programma. Il popolo deve credere e avere fiducia in quanti hanno ricevuto da lui il potere. E questa relazione armonica tra popolo e autorità non si realizza semplicemente nei contenuti della politica, ma tramite una procedura, rendendo cioè la politica completamente trasparente. Al posto dei media corrotti dalla vecchia politica, i grillini si fanno carico di una cultura politica di radicale e alternativa apertura al pubblico, sono via Internet 24 ore su 24 in piazza, di modo che già ora si legge sul blog di Grillo qualsiasi cazzata gli passa per la mente. Si viene a sapere, per esempio, che i grillini sono credibili solo se e quando governano da soli.
I conoscitori professionali dell’Italia all’estero non sono da meno, quando prendono atto della scissione nazionale dalla ottica europea attribuendola al fallimento dei tre schieramenti politici e all’inettitudine o intollerabilità dei leader: siccome Monti e Bersani non sono riusciti a imporre la loro (cioè la nostra) giusta linea gli manca cosa? la capacità di imporsi. Avveduti sì, ma caratteri deboli, quindi in fondo inetti per la politica. La forte leadership invece che a Berlusconi piacerebbe dimostrare è, di fronte alla dipendenza del paese, una barzelletta di cattivo gusto come lo è lui stesso – un caso di megalomania. Grillo, già di professione buffone più che serio politico, ha in qualche modo ragione con la resa dei conti, però si squalifica rifiutandosi di combinare qualcosa col potere, fosse solo eliminare Berlusconi. La parola d’ordine di Grillo, “è ora di tornare a votare”, potrebbe rivelarsi utile nella lotta contro il qualunquismo, se non si fermasse immobile in questa posizione servendo i risentimenti antipolitici il che è, si dice, puro populismo. L’assurdità di munire la rabbia del cittadino con una scheda elettorale affinché possa fare una croce sulla rabbia e saperla rappresentata in parlamento, questa assurdità suscita sì certe simpatie ma solo se poi il cittadino la finisce con la rabbia e il rappresentante nel parlamento torna ad assumersi la sua responsabilità – per una politica, si intende, come ce la possiamo aspettare dall’Italia.
Se Grillo e gli altri due schieramenti non trovano un accordo perché le loro posizioni sono incompatibili, da noi si dà al colpa semplicemente alla loro irresponsabile malavoglia a convenire.[ 21 ] E questa malavoglia conferma ciò che una giornalista tedesca sapeva da tempo: questa specie di politici altro non sono che “populisti e dilettanti” che non sono nemmeno capaci di votare il presidente della repubblica:
“Ciò che attualmente si svolge in Italia ha i tratti dell’incapacità di volere e intendere.”[ 22 ]
La pazienza della stampa tedesca con l’Italia e la sua ingovernabilità è ovviamente arrivata a termine visto che attribuiscono ai buffoni un disturbo mentale. Se poi due mesi dopo si partorisce sì un governo, l’esperta dell’Italia non si fa fregare: a presenziare in quel pasticcio di coalizione, l’inevitabile Berlusconi ci manda il suo burattino Alfano, per riservarsi la parte del burattinaio. D’altronde, dobbiamo essere comunque contenti di avere un governo in loco, cosi dobbiamo pur concedere a questa creatura da ultima spiaggia una fiducia, nonostante tutto il dovuto scetticismo… E da un paese cosi dipende l’Europa, dipendiamo noi![ 23 ]
[ 2 ] SZ 26.2.2013 – Un altra variante degli insulti scusanti riguarda il diritto elettorale italiano che – tecnicamente inadatto per una democrazia! – fa votare per due organi, camera e senato, che possono pure controllarsi a vicenda.
[ 3 ] SZ 27.02.2013
[ 4 ] Westerwelle secondo Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ) 12.12.2012
[ 5 ] Tra 1970 e 1990 il bilancio commerciale italiano è sempre negativo.[ 6 ] Il tasso di cambio italiano è sul arco di due decenni il doppio rispetto a quello della Germania.
[ 7 ] Per poter abbassare i costi salariali unitari su un ampio fronte, lo stato italiano permette al capitale di raggirare le restrizioni dello sfruttamento ottenute con le lotte operaie: le grandi aziende, adottando una specie di Verlagssystem, scorporano su tutto il territorio interi passaggi produttivi delegandoli a piccole imprese: migliaia di imprese di subappalto autonome, indisturbate dai regolamenti ecologici e di assetto territoriale, eludono lo statuto dei lavoratori conquistato dei sindacati perché vale solo per imprese con più di 15 dipendenti. Contratti collettivi di lavoro, tutela del lavoro, settimana lavorativa di 40 ore, libertà di coalizione o protezione dal licenziamento, tutti diritti ottenuti con le lotte, non trovano applicazione nelle imprese piccole.
[ 8 ] È in questa maniera contorta che la casta politica riflette la perdita della base imperialista della nazione: con la fine dell'Unione Sovietica e il blocco comunista è caduta la ragione per l'allineamento anticomunista della politica italiana. L'attinente metodo politico per tenere il PCI lontano dal governo e per prendere le più importanti decisioni in maniera quasi cameralista, fuori dal tutti gli organi democratici, sembra ora essere una strada sbagliata e il maggiore ostacolo per i futuri successi dell'Italia.
Già molto prima del mercato interno e di Maastricht, l'Italia si è tolta dalla testa alcune libertà in materia di finanziamenti pubblici. Il governo ha modificato la relazione con la banca centrale, che non funge più illimitatamente come primo compratore dei titoli statali. In cambio ha creato un mercato primario per la loro messa all'asta, trasferendo i costi del debito pubblico sul conto dei capitalisti finanziari privati: gli interessi e l'inflazione sono scesi con gli anni.
[ 9 ] Gli esperti tedeschi dell’Italia conoscono da subito la ragione della crisi. L’Italia ha debiti troppo alti perché con l’inserimento di servizi sociali nel bilancio avrebbe praticato un assistenzialismo impossibile anziché prendere come modello la Germania con i suoi costi indiretti del lavoro – ignorando volutamente che i salari italiani non contengono questa margine di manovra.
[ 10 ] A che cosa l’economia, con l’euro, sta per andare incontro, lo sanno bene i politici italiani quando, al interno della lite sulle parità definitive tra la vecchia moneta e l’euro, insistono su una ultima svalutazione: per il lancio nella nuova competizione vogliono dare all’economia domestica delle opportunità di esportazione migliori, tanto più che cosi vengono svalutati i debiti sovrani.
[ 11 ] Per i numerosi piccoli e piccolissimi imprenditori che non vengono in contatto con il commercio internazionale cambia poco con l’euro. Esistono tuttora, con il loro capitale risicato, come caso limite tra lavoro nero (tollerato) ed esenzione o condono fiscale riescendo magari a ricavare dalla loro proprietà un reddito, ma non rappresentano un attivo per il bilancio di una potenza mondiale del commercio tantomeno una utile fonte d’entrate per lo stato.
[ 12 ] Anche lo scandalo attuale intorno la banca MPS testimonia l’interesse della politica italiana di mantenere, sul mercato bancario completamente privatizzato, il controllo nazionale sul capitale finanziario: in questo caso, il PD impediva l’incorporazione di una grande banca in un gruppo bancario ollandese perseguendo, con enorme dispendio di soldi che oggi viene bollato come corruzione, una soluzione italiana.
[ 13 ] Nel anno di crisi 2012, il saldo Target 2 dell'Italia scese in poco tempo da +3,4 miliardi a -289 Miliardi euro. Gli interessi medi italiani negli anni di crisi tornano a essere il doppio di quelli in Germania.
[ 14 ] Per quanto riguarda la mancanza di volontà di riforma della politica italiana: dal 2010 sono stati messi su programmi di austerità che ammontano a ca. 150 miliardi di euro, 10% di un completo PIL o 20% di un bilancio statale.
[ 15 ] I comuni italiani sono in debito, persumibilmente, con gli imprenditori privati per prestazioni pubbliche di 100 milliardi di euro.
[ 16 ] Ecco tre misure esemplari da un catalogo voluminoso di riforme del tipo „Salva Italia“ e legge di stabitlità che finisce con cieli bui, lo spegnimento dell’illuminazione stradale.
[ 17 ] SZ, 26.2.2013 – Cosi come il pubblico giudizio si richiama all’oggettività degli interessi richiesti, cosi, ma all’inverso, i speculatori si richiamano al giudizio pubblico come dato per la loro valutazione. Ad ogni modo sono molto lunatici nell’Handling dei criteri, perché per 10 anni il loro sistema nervoso se ne fregava dello spauracchio, anzi, i mercati avevano una bella parte nella “inagibilità” che veniva addossata al governo Berlusconi, negando ripetute volte il riconoscimento agli sforzi di risparmio dell’allora ministro delle finanze Tremonti e rifiutando il rifinanziamento del paese. In quanto a questo, le demissioni coatte di Berlusconi sono dovute all’inasprimento della crisi italiana alla quale i mercati hanno contribuito per poi giudicare la perdita del potere come quel dato politico che parla definitamente contro di lui.
[ 18 ] „Scaduto“ – cosi festeggiavano i critici il loro trionfo dopo le demissioni. La propaganda in Germania, scatenata dopo l’esautorazione si prende delle libertà parlando del “casino governativo” che Berlusconi avrebbe lasciato alla nazione (SZ, 26.2.2013)
[ 19 ] Monti promette, nella sua agenda, expressis verbis di dare battaglia al populismo („contro ogni populismo“) e secondo Bersani „queste elezioni marcherànno la fine del populismo“, il che gli procura le lodi della stampa tedesca: „Bersani rifiuta le belle promesse“ (SZ, 23/24.2.2013) Monti condanna le promesse di Berlusconi di ripagare l'IMU come la forma più volgare del populismo, come acquisto di voti (cf. Il sole 24 ore, 8.2.2013)
[ 20 ] I sacrifici sono da intendere, questo ribadiscono tutti gli agitatori nel paese, come decisione sovrana dell'Italia: „Facciamo dei sacrifici perchè ce lo chiede l'Europa“, domanda il socialdemocratico Renzi. „No, i sacrifici li facciamo perchè ce lo chiede la nostra dignità.“ (SZ, 25.5.2013)
[ 21 ] Proprio Berlusconi dovrebbe essere escluso da questo giudizio, ma le sue offerte, rivolte a quasi tutti quelli che prima ha insultato come nemici dell’Italia, sono considerate o viscida politica di potere, ingegneria delle coalizioni che dai tempi dell’alleanza con la Lega Nord è malfamata presso i suoi critici o una finta per sfuggire alla giustizia o per far salire le quotazioni delle sue imprese…
[ 22 ] A. Bachstein sulla SZ, 22.4.2013
[ 23 ] „Solo un fruitore col suo ghigno è sotto i riflettori come grande tattico: Berlusconi, un uomo del futuro.” (FAZ, 24.4.2013)
GegenStandpunt 2-13
Titolo originale:
L'Italia in crisi
Italien – das Ende eines prekären europäischen Erfolgswegs