Giuridicamente equiparata (all’uomo), stimata moralmente e trattata male
La donna nel capitalismo
Pur avendo raggiunto da tempo l’equiparazione giuridica all’uomo e pur rappresentando la maggioranza dei diplomati, per di più con i migliori voti, e in alcuni corsi di studio universitari la maggioranza degli studenti, anche se hanno conquistato ambiti lavorativi noti per essere dominio degli uomini, le donne continuano ad essere discriminate ed oggetto di soprusi sessuali. Le attiviste che lottano contro questa discriminazione e per l’equiparazione tra i generi rimproverano al mondo maschile di non rispettare l’autodeterminazione e il ruolo della donna consapevole di sé e di rimanere fermo ad un vecchio modo di pensare ruoli di genere ormai superati. Con la loro richiesta di rispetto – in politica, nell’opinione pubblica, in ambito accademico – sfondano una porta aperta. A prescindere dai circoli conservatori che rimangono attaccati all’immagine della famiglia tradizionale e dalle figure dominanti del gangsta rap, non vi è alcuna voce che non riconosca tanto di cappello alle donne in quanto membri della società che godono di valore, di capacità di autodeterminazione e di qualifica professionale. Dappertutto ci sono delegati per la parità di genere, incentivi per le donne e cattedre femminili. Nelle Università, negli ambienti di sinistra e in alcune istituzioni, la politica di genere è già diffusa: si pretende che attraverso la modifica dei vocaboli e della grammatica in ogni frase, in cui ne va di un soggetto umano, si pensi in modo particolare alla donna e le si renda omaggio.[ 1 ]
Da cosa dipende il fatto che questa forte e generale volontà non porti dei gran cambiamenti nelle discriminazioni sociali, nelle offese, nelle aggressioni e nei soprusi che le donne subiscono? Da cosa dipende il fatto che la morale ufficiale sia così diversa da quella vissuta? In altre parole: i pregiudizi cui sono esposte le donne, i ruoli sociali cui sono vincolate non hanno forse motivi più solidi delle deformazioni caratteriali di molti uomini?
I. La perdurante posizione d’inferiorità nella carriera e nel mondo del lavoro
Ci si lamenta del fatto che nonostante tutti i progressi del genere femminile nell’ambito della formazione e in quello lavorativo, nonostante attività professionali anche ai piani alti della gerarchia lavorativa, le donne guadagnino ancora in media il 20% in meno degli uomini, che molte vengano relegate nei cosiddetti lavori femminili e che, anche per coloro le quali sono altamente qualificate, sia più difficile ottenere le posizioni migliori nelle aziende e negli enti pubblici rispetto ai colleghi maschi con la stessa qualifica. Ciò viene concepito come un oltraggio alla giustizia nell’ambito della concorrenza, un oltraggio al fatto che allo stesso lavoro deve equivalere lo stesso compenso.
E quando le donne ricevono solo offerte per lavori femminili pagati peggio, ciò viene condannato come la messa in pratica di pregiudizi discriminanti. Nel nome di una prestazione oggettiva e misurabile con la quale i singoli (lei e lui) dovrebbero conquistare il loro posto nella gerarchia professionale, in nome dunque di un ideale affermativo della concorrenza, viene stigmatizzato un arbitrio che è estraneo alla cosa stessa. E si tralascia di notare che la concorrenza cui sono sottoposti i lavoratori da parte dei datori di lavoro, che li mettono a confronto tra loro, non è una lotta sportiva in cui possa vincere il migliore, piuttosto è la forma corrente di un rapporto di dominio e di servitù.
Il “Gender pay Gap” e la sua causa sociale
Ben prima che il genere della forza lavoro possa giocare un ruolo, il mondo del lavoro e la sua gerarchia di compiti e di retribuzioni sono già bell’e che dati: gli imprenditori fanno lavorare con l’obiettivo di ricavare dalle prestazioni lavorative della gente da loro retribuita un profitto per sé e per chi detiene le quote dell’azienda. Perciò essi pagano il meno possibile le persone per poterne ricevere le funzioni e pretendono in cambio le maggiori prestazioni possibili. Con ciò è anche dato per acquisito che essi pagano male la gran massa di lavoratori, che vengono facilmente sia trovati che sostituiti, e che tirano fuori più soldi solo laddove sono necessarie particolari capacità e conoscenze o laddove i superiori devono prestare attenzione al lavoro degli altri e imporre ai sottoposti gli interessi del capitale. Non vi altro nesso tra la prestazione richiesta e la retribuzione accordata, non vi è altro criterio in base al quale lavoro e salario stiano in relazione.[ 2 ]
Le donne, così come gli uomini, vengono immesse in questa concorrenza che non ha niente a che fare col genere cui appartengono. All’interno di essa però le donne sono abbonate ai posti più bassi nella gerarchia delle professioni. E ciò accade per un unico motivo: le donne costano meno, sono ancora più ricattabili degli uomini e le imprese sfruttano questa circostanza per i loro affari.
E questa favorevole circostanza la creano da sé impiegando sia uomini che donne per la maggior parte della giornata e pagandoli per la quantità di lavoro effettuato. Ben poco interessa ai datori di lavoro in che misura i lavoratori riescano a vivere di ciò che guadagnano e ben poco interessa loro se il tempo che rimane libero dal lavoro sia sufficiente ai lavoratori per poterci vivere una vita in qualche modo soddisfacente. E questo è il problema di coloro i quali dipendono da un salario. Costoro percepiscono la contraddizione di dover sbrigare tutte le necessità della vita quotidiana – abitazione, cibo, abiti, cura dei bambini – al di fuori del tempo di lavoro (tempo che riempie tutta la giornata) e con un budget piuttosto ristretto. E ogni tanto occorrerebbe pure un po’ vivere. Questa contraddizione non la si può reggere da soli. La forma di vita della grande maggioranza della popolazione documenta come siano inconciliabili l’attività lavorativa e il necessario lavoro domestico alla luce dei già citati limiti di tempo e di denaro: due individui di genere diverso si mettono insieme non solo perché si vogliono bene e per fare dei figli, bensì anche per affrontare il quotidiano e condividere soldi e gestione della casa. Uomo e donna possono ovviamente suddividersi i guadagni e i lavori di casa come vogliono, ma al più tardi con l’arrivo dei figli la famiglia diviene altro dalla semplice convivenza di due persone autonome che portano a casa uno stipendio. La necessità di ulteriori entrate rende necessario un impegno più intenso per la carriera ed il lavoro da dedicare alla famiglia aumenta. E dato che diviene necessario decidere se concentrarsi sul lavoro o sulla famiglia, si viene a riprodurre, nonostante tutte le emancipazioni, il vecchio ruolo di colui che sostenta, o perlomeno di colui che guadagna di più ed è un ruolo che in genere ricopre l’uomo, così come si riproduce il ruolo di chi si occupa della famiglia, per lo più la donna che al giorno d’oggi è anche lavoratrice. Perché il salario di un lavoratore non è affatto sufficiente, affinché due o più membri di una famiglia possano godere di un normale standard di vita. Dunque, spesso l’uomo guadagna la parte maggiore del denaro necessario alla famiglia, la donna, accanto ai doveri legati alla casa, appena possibile va a lavorare e guadagna dei soldi in più. Il suo doppio carico di lavoro, di cui lei tanto si lamenta, è la prova del fatto che guadagnarsi un salario per entrambi i generi, sia per l’impegno di tempo e di fatica sia per il ricavato in denaro, non è certo un buon mezzo per garantirsi una buona vita.
Quando le aziende differenziano gli stipendi e le carriere dei propri dipendenti a seconda del loro genere sessuale, non fanno davvero riferimento alla biologia, bensì all’istituzione della famiglia borghese alle cui necessità e caratteristiche esse stesse provvedono, pagando i salari che pagano ed esigendo i tempi di lavoro che esigono. E poi sfruttano la stereotipata divisione del lavoro familiare che da ciò risulta: alle donne, che hanno bisogno di un lavoro e al tempo stesso devono occuparsi dei bambini e che perciò a volte non si presentano al lavoro o possono essere presenti solo quando sono aperte le scuole per l’infanzia, le aziende offrono lavori poco pagati, eventualmente le impiegano a metà tempo e pagano loro dei salari che nulla hanno a che fare col potersi finanziare la propria sussistenza. Esse possono contare pure sulla concorrenza con le donne che devono apportare denaro extra al budget familiare e che dunque non giudicano questi soldi “in più” in base al criterio per cui dovrebbero poter finanziare la propria vita. La prova di ciò sono le madri single che appartengono alla categoria dei “working poor” e vengono riconosciute come un problema sociale: un salario di una donna è un salario extra e quando non lo è, allora è una catastrofe.
Ovviamente gli imprenditori non perdono l’occasione di rendere le madri, le quali sono solo in parte a loro completa disposizione, tanto redditizie per i loro affari quanto lo sono gli altri lavoratori. E ciò a spese delle madri stesse. Il fatto che le donne in una certa fase della vita rimangano incinte e debbano far fronte ai doveri materni viene fatto pesare dalle aziende in maniera generale a tutto il genere (femminile) a prescindere dall’età o dalla rinuncia individuale di una lavoratrice a famiglia e figli, in quanto (si tratta di una) possibile limitazione della prestazione lavorativa in azienda, limitazione che deve essere compensata con un minore costo del lavoro. Non gioca alcun ruolo la questione se i costi, cui non corrisponde una prestazione lavorativa, derivino, per l’azienda, dal genere cui la forza lavoro appartiene.
Dato che gli imprenditori in generale pagano le donne meno degli uomini, ne desumono coerentemente che anche il loro lavoro deve avere meno valore. I bassi salari che essi pagano alle donne per le loro sempre uguali e stupide azioni nell’industria o alle casse dei negozi, vengono giustificati con la bassa qualificazione posseduta da queste donne. Come se non fossero gli imprenditori stessi a pretendere dalle donne questi lavori stupidi e a ridurle a funzioni totalmente limitate. Il lavoro, e quanto questo viene pagato, non ha nulla a che fare con la qualificazione professionale delle candidate ad un posto di lavoro. Le imprese non valorizzano nemmeno il continuo aggiornamento effettuato sul posto di lavoro, quando le candidate dimostrano di averlo acquisito.
L’interesse dell’azienda a sfruttare la particolare dipendenza dal lavoro delle donne che hanno necessità di guadagnare del denaro extra così come la generalizzazione di una presunta, ma per niente reale, minore utilità delle madri da un punto di vista capitalistico sono le fonti di pregiudizi molto resistenti, perché molto utili, nei confronti delle prestazioni femminili.
Tipici lavori femminili – tipici di cosa?
Anche nel caso dei tipici lavori femminili, non sono le donne il motivo per cui questi lavori esistono. I lavori sociali, quelli nell’ambito dell’educazione, della cura degli anziani e dei malati, si caratterizzano economicamente per il fatto di essere necessari, ma di non dare alcun contributo alla crescita del capitale, al contrario essi rappresentano dei costi per la collettività che vengono finanziati tramite parti del salario incamerate dallo Stato, tramite la previdenza sociale o tramite il bilancio dello stato, e proprio per questo sono spese sempre sottofinanziate. Laddove case di riposo per anziani ed ospedali vengono privatizzati e organizzati in senso capitalistico è difficile, secondo quanto riferiscono dal comparto stesso, ottenere redditività perché risparmiare sul costo del lavoro attraverso una maggiore efficienza lavorativa data dalle tecnologie è possibile solo in forma molto limitata. Entrambi i deficit capitalistici di questo ambito lavorativo i datori di lavoro li accollano ai lavoratori e, allo scopo di arrivare agli utili e alla riduzione dei costi, pagano i pochi uomini che ci lavorano molto meno di quanto vengono pagati nel settore industriale. Le professioni nell’ambito della cura sono dominio delle donne non soltanto perché esse si accontentano, in quanto portatrici di un secondo reddito, di una paga limitata, bensì perché gli uffici del personale, almeno finora, già di sé richiedono per lo più donne per svolgere questi lavori.[ 3 ] Nel loro sforzo di voler occupare le posizioni lavorative esattamente con quella forza lavoro che, con la propria personalità, garantisce l’espletamento dei compiti, e di garantire dunque la servitù agli scopi dell’azienda, gli uffici del personale perseguono la convinzione che le donne siano per natura più adatte a rivolgersi a lavori di servizio nei confronti delle altre persone. Alle donne vengono attribuite capacità di immedesimazione e di adattamento fino al servilismo, e questa capacità viene praticata anche in ambiti che non hanno a che fare col sociale, bensì rappresentano servizi diretti ai propri superiori: la segretaria, l’assistente medico, ecc. hanno il compito di alleggerire il lavoro del capo, preparargli gli spazi di lavoro, fare fronte ai suoi bisogni e – eventualmente – anche rallegrargli l’umore. La signoria del denaro, che viene pagato dal datore di lavoro e guadagnato dal lavoratore, include in queste professioni un rapporto molto diretto di subordinazione del prestatore di servizio alla volontà dell’utilizzatore del servizio stesso o addirittura all’arbitrio di quest’ultimo – anche questa una questione femminile.
Quando i datori di lavoro attribuiscono alle donne una naturale qualificazione al servizio, si riferiscono al loro ruolo familiare di casalinghe e madri e presuppongono semplicemente che esse facciano di tutto ciò che sono e fanno nella famiglia la loro stessa identità, così che esse al di fuori della famiglia non vogliano e possano fare altro che intraprendere un ruolo di servizio. Le particolarità del carattere che i capi del personale attribuiscono alle candidate donne sono esattamente ciò che pretendono da loro; e a queste caratteristiche della personalità, che si pretendono da loro, le donne vengono praticamente vincolate.
Con la loro “competenza in fatto di persone” i capi del personale non fanno certo brutta figura – e non perché abbiano ragione, bensì perché hanno il potere di rendere efficaci e valide la loro valutazione morale della personalità e le loro aspettative rispetto al carattere dei candidati. In fin dei conti sono loro a decidere delle carriere e dei fallimenti, dell’assunzione e della disoccupazione. Essi orientano la loro scelta del personale non solo in base a qualificazioni formali, dunque al titolo di studi, bensì non di meno in base a qualità caratteriali e valutano la persona morale sulla base di attestati forniti dai precedenti datori di lavoro che documentano l’adempimento del proprio dovere e l’abnegazione, sulla base di un’apparenza curata o non curata, dello stato di salute o della provenienza nazionale. E così fanno capire che il lavoro per un’impresa capitalistica o per un’azienda pubblica, che ragiona in modo simile, non si realizza nell’espletare oggettivi compiti lavorativi, bensì include l’essere disposto alla subordinazione, al servizio nei confronti dell’interesse altrui ai soldi e all’arricchimento.
Le donne che devono guadagnare dei soldi sanno dunque che tipo di lavori sono per loro i più semplici e quali altri invece sono difficilmente accessibili, si orientano in relazione all’offerta e in relazione ad essa presentano le loro domande di lavoro. Già durante il colloquio di lavoro, che oggigiorno nessuno più affronta senza l’ipocrisia di affermare che il lavoro offerto è esattamente ciò che corrisponde alla propria personalità e che ci si è sempre augurati di ottenere, viene presentata l’immagine caratteriale che viene richiesta per quel lavoro. In questa calcolata autorappresentazione non rimane altro che una obbedienza distanziata e solo esteriore. E dato che gli individui al giorno d’oggi non sono servi ma liberi cittadini, per i quali ne va di sé stessi, e poiché in questa società ogni subordinazione e ogni pretesa si presenta come chance per fare qualcosa per sé, guadagnare dei soldi appunto, questa chance va colta, e ciò che viene materialmente ed economicamente estorto viene diventa effettivamente una propria libera decisione. Le donne che fanno un lavoro sociale si riconoscono nel “servizio alla persona”, anche quando questo servizio non è certo alla persona (cosa evidente negli ospedali e nelle case di riposo), bensì all’interesse al profitto da parte del capitale dell’ospedale o al calcolo dei costi da parte dell’amministrazione dello Stato. Le donne considerano le caratteristiche necessarie ad occuparsi delle altre persone come propria qualificazione e proprio impegno, come “il loro contributo alla collettività” con cui si guadagnano non solo un salario, bensì il riconoscimento in quanto preziosi membri della comunità. Pur insoddisfatte dello scarso riconoscimento materiale e ideale che ricevono, coltivano una decisa coscienza, un certo orgoglio del proprio ruolo e di sé in quanto individuo che questo ruolo ricopre. Poiché esse convertono lo sfruttamento capitalistico cui sono sottoposte in un lavoro di comunità cui danno il proprio contributo acquisendo così il diritto alla partecipazione, anche le donne, ma non solo loro, divengono i personaggi che i datori di lavoro richiedono; non perché esse sono così per natura, bensì perché sono “giuste” così.
Il razzismo di genere dei capi del personale viene utilizzato non soltanto in modo spregiativo e non solo in caso di professioni di servizio. Alcuni capi che attribuiscono alle donne più empatia e meno aspirazione a dominare, le ritengono forse particolarmente adatte non per le posizioni superiori per le quali è richiesta capacità di imporsi, ma per quelle immediatamente inferiori, per cui occorre saper lavorare in team e dove è necessario equilibrare la concorrenza dei lavoratori uomini. Grandi aziende mettono donne in posizioni direttive, preferibilmente nell’ambito della direzione del personale. Ritengono che le donne, con la loro mitica capacità di immedesimazione, siano per natura meglio qualificate a valutare la personalità dei candidati e a comunicare licenziamenti con il tono giusto. Le donne che aspirano a queste posizioni confermano questa caratteristica che viene loro attribuita: si mettono a disposizione con queste qualificazioni femminili.
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Così si formano, nel capitalismo, i caratteri sociali in relazione alla specificità di genere. Essi non equivalgono a pregiudizi antiquati che trovano le loro ragioni in un tempo passato, bensì sono caratteristiche sociali della personalità che vengono richieste dal dominio del datore di lavoro e attribuite, in una sussunzione generalizzante, all’intero genere. E queste vengono effettivamente espresse e vissute da chi concorre per ottenere un posto di lavoro. I ruoli di genere costituiscono la norma con cui lui e lei devono confrontarsi. Di regola già i bambini e i ragazzi, per avere successo a scuola, con i coetanei o in generale, si orientano secondo questa norma, ben prima di avere a che fare con i capi del personale. Possono anche porsi in modo critico nei confronti di questi ruoli, rifiutarli addirittura per poi dover vedere come trovare “la propria strada” in quanto divergenti.
La discriminazione e il divieto di discriminare
Non è da molto che esiste un divieto di discriminazione che si riferisce non solo, ma in particolare al mercato del lavoro e alla scelta del personale da parte delle aziende. Si vieta ai datori di lavoro di selezionare il proprio personale secondo il genere, l’orientamento religioso, la religione, la concezione del mondo e la nazione d’origine, quindi secondo i cosiddetti punti di vista non pertinenti; i posti di lavoro devono essere disponibili per ogni candidato che ha la necessaria qualificazione.
Con tale divieto il legislatore conferma le informazioni date sui salari e sulle professioni femminili, e cioè che la suddivisione della forza lavoro a seconda del genere è una prassi consolidata. Se esso distingue la selezione dei candidati tra una corretta valutazione in base all’obiettiva qualificazione e attitudine a determinati compiti da una parte e una illecita discriminazione in base a criteri che rientrano nell’ambito del diritto all’autodeterminazione e alla propria personalità dall’altra, allora questo legislatore rappresenta e decreta l’ideale di una leale concorrenza rispetto alla reale concorrenza, cui i datori di lavoro assoggettano i candidati. In quanto guardiano della concorrenza lo Stato insiste sul fatto che i detentori del potere economico facciamo del loro potere sugli altri un uso oggettivo e che tra tutte queste misurazioni e comparazioni, che ai dipendenti tocca accettare e gradire, la loro libertà e uguaglianza in quanto cittadini rimangano intatte. Esso vieta agli imprenditori l’arbitrio di sottoporre i candidati ad una scelta a seconda dei propri gusti morali e di escluderne alcuni in anticipo dalla concorrenza per determinati posti di lavoro: ognuno deve avere la chance di fornire la propria prestazione e di ottenere la posizione corrispondente nella gerarchia delle professioni. Ben sapendo che la sua società di per sé funziona diversamente, lo Stato pretende dal rapporto di signoria economica del potere capitalistico sul resto della popolazione di organizzarsi come dura ma giusta “società meritocratica”.
Se al tempo stesso non vuole cambiare nulla del potere e del diritto del capitale di ripartire le carriere a seconda della sua valutazione dell’idoneità dei candidati e di farsi guidare in ciò dall’interesse al profitto legato ai servizi acquistati, non può alla fin fine neanche impedire che la scelta dipenda da aspetti caratteriali, genere, provenienza nazionale ecc., questioni che, dal punto di vista del datore di lavoro, non sono affatto soggettive. Il divieto di discriminazione si limita, per l’economia privata, essenzialmente al fatto che le comunicazioni di diniego, formulate in modo giuridicamente impeccabile, non possano essere motivate dal genere, ecc., ecc. Per questo le aziende che assumono non motivano più il rifiuto nei confronti dei candidati – cosa che non sono tenuti a fare – per sottrarsi fin dall’inizio ad una contestabilità, dal punto di vista giuridico, della loro scelta relativa al personale. Un peso pratico e insieme una certa forza nel creare un quadro di costumi questo divieto li dispiega laddove lo Stato stesso si presenta come datore di lavoro. Esso decide non solo in base alla qualificazione, bensì talora corregge la discriminazione in negativo delle donne con una in positivo: ad ogni modo le falsificazioni intese a promuovere le donne – quote rosa nei partiti, la preferenza data alle candidate donne rispetto agli uomini con uguale qualifiche universitarie e professionali – sono già controverse all’interno di quelle forze politiche che fanno un vessillo della questione della giustizia nella concorrenza.
II. La cultura del sopruso – e il suo fondamento nella famiglia
Per la critica femminista ancor più importante delle opportunità di lavoro è la relazione sessuale tra i generi all’interno della famiglia, nella cerchia dei conoscenti, nel lavoro e nell’opinione pubblica. Le donne si vedono esposte ad una rivendicazione di dominio da parte degli uomini, a commenti allusivi, a battute, ad approcci aggressivi e palpeggiamenti fino ad arrivare alla violenza sessuale. I giornali sono pieni di questi soprusi – e di chiarimenti sul fatto che questo genere di comportamento non appartiene agli uomini. Quando tuttavia questi ultimi, al di là della minoranza di macho che si professano tali, non rinunciano a rivendicazioni di dominio nei confronti delle donne, rivendicazioni alle quali nessun datore di lavoro e nessuno Stato li autorizza o li incoraggia, allora si dà un interesse non casuale, una necessità che mostra la sottomissione della donna e che sarebbe meglio non addossare alla natura, agli ormoni o alla lunga tradizione.
La famiglia: il far fronte comune alle necessità della riproduzione
Le rivendicazioni sessuali degli uomini e la disponibilità a adeguarsi delle donne, dunque i ruoli di genere e le consuetudini che vi appartengono hanno una base materiale attuale nella famiglia moderna, di cui si è già detto. Nessuno costringe donne e uomini a sposarsi, non lo fa lo Stato e oggigiorno nemmeno la buona creanza. Lo fanno perché il matrimonio, o un rapporto simile al matrimonio, è una forma di vita priva di alternative per gente che 1) lavora tutto il giorno in cambio di denaro 2) fuori dall’orario di lavoro ha ancora un sacco di necessità quotidiane da risolvere e 3) la sera ha anche bisogno di qualcuno di umano con cui parlare. Insieme i coniugi gestiscono la vita, si organizzano con tempo, forza e soldi insufficienti una vita privata insieme alla cura dei figli, una vita privata che obbedisce soprattutto ad una necessità: deve metterli in grado, il giorno successivo e a lungo andare, di poter di nuovo intraprendere il proprio lavoro retribuito. La loro vita al di fuori del lavoro è riproduzione funzionale al lavoro. Ma chi è che la vede così? [ 4 ]
… e il suo significato superiore: un risarcimento per le durezze della vita lavorativa
I lavoratori dipendenti che, come già detto, non sono dei servitori bensì liberi materialisti privati che hanno diritto ai propri benefici, interpretano il rapporto tra scopo e mezzi proprio al contrario: dopo aver concluso il lavoro e coi soldi guadagnati sono liberi di regolarsi la vita come piace a loro. Adesso tocca a loro! Il lavoro che effettuano al servizio dei soldi altrui, che assorbe la maggior parte del tempo della loro vita da svegli, che li consuma e che assegna al tempo libero la funzione di riattivare le loro capacità lavorative, lo accettano come il regno naturale della necessità, come il prezzo da pagare per il piacere e per quegli obiettivi che ci si pone liberamente e che occorre collocare in quel poco tempo che resta durante la giornata. Contro l’oggettività insistono sulla loro relazione tra scopo e mezzi, sul fatto che il lavoro è il mezzo, però il tempo libero è lo scopo e il guadagno delle fatiche – e perché non dovrebbero, fintanto che rimangono fedeli al loro lavoro in quanto mezzo per vivere? Così assegnano anche al tempo libero, che tanto libero poi non è, una precisa funzione: esso deve ripagare di quel sacrificio del tempo della vita che è la vita lavorativa e fornire la prova che il sacrificio nell’insieme “valga la pena” in quanto mezzo per una vita riuscita. Il tempo libero, e specialmente la sfera della vita privata a due, viene caricato dell’impossibile compito di volgere in positivo il bilancio di una vita che dipende dal salario.
Per esser soddisfatti di sé e del mondo, si insegue l’obiettivo autonomo, e per questo folle, del tempo libero. Si ha un’immagine di quello che si può e si deve pretendere dalla vita per non appartenere alla categoria degli infelici e dei falliti. Il successo lo si pretende per sé stessi e lo si usa come criterio per giudicare gli altri. Si ha un gran bisogno della prova di questo successo e lo si presenta a sé stessi e ancor di più al mondo – cosa che già contiene il passaggio all’inganno e all’autoinganno. Con il diritto e il dovere alla felicità, anche la sfera privata, dopo il lavoro, diviene terreno di affermazione.
Amore a scopo di matrimonio – ovvero come trovare compensazione al mondo della concorrenza
La prima di queste prove per affermarsi consiste nel trovare un partner e legarlo a sé in modo duraturo. La scelta del partner, tramite la quale si cerca l’uomo o la donna della vita, non può ridursi all’ingenuo innamoramento, all’immediata attrazione per un’altra persona, a quel sentimento appunto che tutte le riviste e i film celebrano come la vera e purtroppo instabile felicità. Accalappiare quello/a giusto/a è un programma da seguire con serietà, un programma che prende in considerazione l’oggetto d’amore sotto il profilo del diritto ad una prestazione.
Coloro che vogliono sposarsi – e su questo non si ingannano – col matrimonio entrano in un legame che si rende indipendente dall’amore: una voluta ed etica assunzione di impegno. Gli sposi lo promettono non solo l’uno all’altro, ma anche, con le nozze, all’intera comunità religiosa o politica. Riconoscono la propria intima vita a due in sintonia con le buone usanze della società, con la consuetudine vigente e la propria vita individuale giustificata dalla conformità con quella generale.
Per la propria felicità i partner si creano un mondo privato contrapposto a quello della concorrenza in cui, al di fuori della vita a due, devono e vogliono affermarsi quotidianamente per potersi permettere il proprio nido in un mondo di interessi e contrasti. Rinunciano a chiedersi “quanto mi costa l’altra persona?”, condividono soldi e lavoro. Tra loro la persona non dev’essere giudicata in base alla prestazione o al successo, bensì trovare immediato riconoscimento “per come è”, cioè essere amata. Col partner non ci si vorrebbe dover imporre, bensì, senza doverlo chiedere, trovare comprensione per i propri desideri e bisogni. Questi sono di norma non particolarmente originali, bensì stabiliti dalla divisione del lavoro all’interno della famiglia; una divisione del lavoro che, pur essendo considerata oggigiorno da molte coppie come discriminante e superata, nondimeno si riproduce invariabilmente sotto la pressione di necessità e contingenze: così, come sempre, è Lui l’addetto a procacciare i soldi necessari, semplicemente perché di norma gli uomini guadagnano di più. In compenso si aspetta che Lei si occupi della casa e dei figli e che, nel dopolavoro, sia responsabile per il suo (di lui) benessere fisico e psichico. Lei si aspetta in compenso riconoscimento e comprensione, aiuto domestico, soprattutto se anche lei va a lavorare. I coniugi affrontano i compiti assegnati e vogliono accontentarsi a vicenda, esserci per l’altro. Si identificano col proprio partner e lo indentificano con ciò che si aspettano da lui.
Che le aspettative siano in realtà pretese supponenti e che vengano regolarmente deluse dipende dal criterio che i partner applicano alla loro vita privata e che quindi si applicano a vicenda: l’uno deve infatti rendere le durezze esterne alla vita familiare prive di significato e garantire all’altro la soddisfazione completa dell’individualità, cosa che egli, in principio e alla lunga, con il suo contributo alla vita familiare non riesce a fare. La riuscita o la non riuscita di questo programma compensatorio non vengono messe in relazione a ciò che deve essere compensato, bensì al partner: le difficoltà che la mancanza di soldi, tempo ed energie portano con sé vengono interpretate come insufficiente impegno dell’altro nella comunità familiare e mancanza di disponibilità a subordinare ad essa tutti gli altri interessi. E così la volontà di rendere felice l’altro finisce per essere un continuo richiedere e prestare servizi e proprio nelle coppie che subordinano tutto alla continuità del proprio matrimonio finisce per essere uno scambio di altruismo che non è privo di calcolo. Con la propria disponibilità alle necessità e ai bisogni del partner si esigono al tempo stesso i suoi servigi che si ritiene di essersi più che guadagnati.
Le aspettative nei confronti del partner, ben prima che queste falliscano, sono pretese giuridiche, adempiere a queste pretese è un dovere dell’amore da parte del partner. E quando questi non fa la sua parte per il benessere comune, proprio la persona al mondo che è responsabile per la propria felicità distrugge il bene supremo. La fonte della violenza nelle relazioni è che i partner non solo vorrebbero amare ed essere amati, bensì reclamano un diritto all’amore. Questa violenza va dal picchiare la moglie disobbediente, alla vendetta femminile attraverso il sentirsi offesa e il mettere in atto il terrorismo psicologico fino ai casi estremi di guerra tra i coniugi con follia omicida e assassinio.
Diritto al sesso e dovere del sesso
Oggigiorno l’obbligo all’amore si collega addirittura, ed in modo pressante, al piacere e al desiderio fisico che si prova nei confronti dell’altro. Invece di un ambito del piacere è l‘ambito della felicità ad esser messo al servizio della compensazione, quell’appagamento totalizzante e ripagante che per entrambi i generi ha un’immensa importanza: il sesso deve funzionare affinché in famiglia non volino gli stracci. Quanto la cosa sia seria lo rendono evidente i consulenti matrimoniali nelle riviste e nei loro studi quando rivelano alle coppie frustrate cosa occorre fare ed eventualmente cosa occorre simulare, affinché la faccenda funzioni. E‘ una particolare perversione ridurre a sesso il desiderio fisico, desiderio che racchiude in sé l’apprezzamento e l’intimità con un’altra persona, è una riduzione in cui la spontaneità passa in secondo piano. Il piacere sessuale da una parte viene ridotto all’abile esecuzione di un atto fisico e dall’altra innalzato a qualcosa di più poderoso di un piacere, al feticcio di una vita riuscita e di una relazione intatta.
Perciò la soddisfazione sessuale non è soltanto un diritto che i partner riconoscono l’un l’altro, bensì per entrambi un compito nell’adempimento del quale si misura il partner e sé stessi. Non solo l’obbligo all’amore da parte del partner, anche la propria capacità di risvegliare il suo interesse sessuale, dunque la propria capacità di attrazione viene costantemente messa alla prova. Dato che i partner devono l’uno all’altro questa dimostrazione di successo e capacità, i dubbi su di sé e la paura di “fallire a letto” (anche questo un topos della manualistica in questo campo) fanno parte del tema, così come un atteggiamento esigente nei confronti del partner. Il suo disinteresse o il suo rifiuto non sono semplicemente spiacevoli, sono un attacco al tipo maschile e femminile di successo, feriscono il suo amor proprio mettendo in cattiva luce la sua capacità di sedurre e la sua bravura in campo sessuale. Donne e uomini soffrono della ferita al proprio orgoglio e lottano in modi diversi per la propria affermazione. Quando un uomo diventa violento non lo fa più per conquistarsi amore o soddisfazione sessuale. E‘ la riflessione su di sé, la difesa di quel faticoso credere in sé stesso in quanto individuo che è capace di successo nella vita, in quanto gran fico nelle questioni sessuali, è tutto questo ciò che necessita di una conferma dell’immagine di sé anche contro la volontà della donna. Il piacere che ne deriva è l’autocompiacimento nel sapere che ci si prende ciò su cui si rivendica un diritto.[ 5 ]
A questo punto finale, a questo obiettivo del materialismo della compensazione, dell’auto conferma e autorappresentazione in quanto individuo capace di raggiungere il successo sono subordinati i rapporti tra i generi – e non solo all’interno della famiglia, che di certo non porta definitivamente al tanto rivendicato appagamento. Per molti uomini (e per alcune donne) è una specie di sport il rimorchiare gli esemplari dell’altro sesso con cui riescono ad entrare in relazione.[ 6 ] E per quelli a cui questo non riesce o non riesce a sufficienza la collettività riserva l’istituto legale del bordello, in cui il denaro rende la donna arrendevole.
Dove la soddisfazione sessuale diviene un diritto e una cartina di tornasole del valore maschile, alla consuetudine riconosciuta si unisce un eccesso che certo non gode di approvazione: per lo più in famiglia e nel giro dei conoscenti, in casi estremi anche con vittime casuali, gli uomini si prendono ciò che ritengono un loro diritto e passano sopra alla volontà della donna. Lo stupro è la forma estrema dell’autoaffermazione di un uomo legittimato e obbligato al successo sessuale.
Chiaramente la cultura della violenza sessuale è molto più diffusa delle reali violenze sessuali. Gli uomini manifestano la propria coscienza di sé, in quanto individui che possono procurarsi ciò cui immaginano di aver diritto sulla base del genere cui appartengono, ogniqualvolta fischiano dietro a qualsivoglia donna, la abbordano o la palpeggiano. I padri di famiglia che sanno bene di non potersi esprimere a casa in un certo modo, si vantano delle tante donne che hanno avuto o avrebbero potuto avere e, usando espressioni allusive, si presentano come gaudenti – sempre secondo il punto di vista che le donne sono lì a disposizione per il loro piacere.[ 7 ] Il vero piacere è del tutto ideale, un’autorappresentazione che gli uomini confermano l’uno all’altro quando concorrono in questo campo. Anche nell’evidente sbruffonata ribadiscono il loro diritto al soddisfacimento sessuale e il superiore valore che hanno questi eventi, che durano qualche minuto, per la riconciliazione dell’individuo borghese con il mondo capitalistico.
III. Il pubblico costume – un’oggettività sociale
Le donne che si ribellano al loro ruolo nel lavoro e in famiglia e al diritto maschile che vi è collegato hanno contro di sé molto di più che un brutto comportamento da parte di uomini che rimangono attaccati a ruoli superati e a privilegi patriarcali. Hanno a che fare prima di tutto con un mondo del lavoro capitalistico e con la sua scelta della forza lavoro secondo il criterio del genere sessuale. In secondo luogo, hanno a che fare con una moralità pubblica che viene vissuta da entrambi i generi il che significa aver a che fare con le fatiche necessarie, e per questo ovvie e generalmente approvate, ad organizzare la vita in base alle condizioni economiche. Naturalmente non è il Capitale e nemmeno più lo Stato a ordinare come uomo e donna debbano vivere insieme e cosa possano pretendere l’uno dall’altra a prescindere dal denaro e dalle forme di assistenza. Ma li sottopongono a condizioni di vita in cui cavarsela in modo costruttivo rimanda comunque al matrimonio o ad una convivenza simile al matrimonio – una convivenza che diviene perciò una forma di vita non normale, ma normativa. E finisce per essere per i partner, a causa della continua mancanza di tempo o di soldi, una vincolante comunità della rinuncia, piena di richieste insoddisfatte – compresi gli eccessi che sono legati alla coscienza dei propri diritti.[ 8 ]
Cosa sia la moralità pubblica, l’assimilazione e la pratica individuale del costume abituale, lo rende chiaro il confronto con i differenti costumi che hanno gli immigrati di religione islamica, i quali portano con sé la propria morale partendo da altri rapporti sociali ed economici che hanno richiesto altre forme di famiglia e un’altra suddivisione del lavoro tra i diversi generi. Nella donna musulmana, col suo abito lungo e la testa coperta che non può uscire di casa da sola e il cui onore viene sorvegliato dai componenti maschili della famiglia, la cultura occidentale vede solo oppressione. Alle sue rassicurazioni, secondo cui essa sotto il velo si sentirebbero sé stessa, semplicemente non si crede. Mentre si crede assolutamente all’orgogliosa affermazione della donna occidentale, che ha una professione, un marito e dei figli e una serie di doveri cui far fronte, che questa è la sua vita e che la vuole così.
In una si vede solo l‘oppressione, nell’altra solo la libertà, mentre di fronte a sé si hanno casi differenti di una stessa cosa: la morale vissuta è l’accordarsi da parte del soggetto con le necessità e le costrizioni sociali in cui vive, la modalità generale ed abituale con cui si vive sottostando a queste necessità e costrizioni. I costumi non sono dunque qualcosa di casuale; per il singolo non sono né facoltativi né un ordine dall’esterno: la forma di vita in cui ci si integra è la conciliazione della soggettività con l’ordine imperante, l’unità di sottomissione e libertà.
IV. La pretesa del rispetto
Si sbaglia a concepire i diversi ruoli delle donne nell’economia e nella sfera privata, e ciò che essi rappresentano, come espressione di “inimicizia” o di mancanza di rispetto nei loro confronti. Prima di tutto si sorvola su tutte le differenze e sulle diverse cause delle richieste fatte alle donne e delle sfacciataggini nei loro confronti equiparando il tutto e, in secondo luogo, viene ricondotto tutto ad una ragione che sicuramente non è quella per cui le donne vengono maltrattate – un motivo in negativo che non comprende in sé il perché le donne sono vittime in quanto lavoratrici mal pagate, casalinghe e oggetti sessuali, bensì lamenta la mancanza di un freno nel maltrattamento delle donne, a prescindere da quale ne sia la ragione.
Il rispetto preteso si collega al diritto della donna all’autodeterminazione e con ciò ad un valore superiore di questa società. L’articolo della costituzione che garantisce ai cittadini di ogni sesso il diritto ad una propria volontà è molto amato in quanto diritto protettivo, per via del limite che con ciò lo Stato pone alla volontà degli altri; la loro volontà termina laddove essi ledono la volontà altrui. Si nota molto meno un’altra cosa, pure questa contenuta in quell’articolo della costituzione: il riconoscimento e l’autorizzazione di una volontà che vale nel suo ambito e cui solo dall’esterno viene posto un limite. Lo Stato borghese, con la concessione e la limitazione dell’autonomia della volontà, si riferisce agli interessi contrapposti presenti nella sua società che esso stesso con ciò sviluppa e regola. In questo modo lo Stato vincola i cittadini a vivere con questi interessi contrapposti e protegge fondamentalmente il mondo della concorrenza capitalistica che include quei rapporti di lavoro e nella vita privata, all’interno dei quali soffrono le donne.
Quando il movimento femminista perora la causa dell’autodeterminazione oppure ne denuncia la violazione, definisce la libertà degli uomini come causa della sofferenza delle donne, libertà che ha troppi pochi limiti e che dovrebbe essere delimitata, sia con l’autodisciplina volontaria sia tramite il potere punitivo dello Stato. Le femministe di sinistra possono discutere a lungo di rapporti capitalistici, di ruoli e posizioni di potere che si fondano su questi rapporti, quando esigono rispetto però si riferiscono solo ad individui che sono definiti dalla loro appartenenza di genere: uomini cui esse vorrebbero prescrivere barriere interiori ed esteriori. La brutalità e la bassezza che nasce dal loro diritto alla soddisfazione sessuale vengono accettate dalle femministe come un ovvio e non ulteriormente criticabile presupposto del rapporto tra i generi, come il normale interesse degli uomini contro il quale solo limitazioni e divieti possono essere d’aiuto. Le donne che con veemenza si difendono dall’affermazione secondo cui i ruoli attribuiti loro nel lavoro e nella famiglia corrisponderebbero alla loro natura femminile, con la loro pretesa di limitazioni fanno valere, per il genere maschile, la stessa affermazione.
Il movimento femminista ha successo pure con questa accusa fatta agli uomini. Non tanto nei confronti della massa degli uomini, ma certo nei confronti di una platea di sostenitori maschili che riconosce la propria appartenenza alla categoria degli uomini sessualmente aggressivi e ordina a sé stessa la coscienza di sé. Proprio gli uomini che non vogliono avere nulla a che fare con il disprezzo per la donna e con la pretesa di una signoria sessuale e mai apparirebbero brutali nei suoi confronti, riconoscono di avere la coscienza sporca e la necessità di un’attenzione nei confronti del violentatore che è dentro tutti noi.
(Traduzione dell’articolo: Die Frau im Kapitalismus, GegenStandpunkt 4-19)
Aprile 2021
[ 1 ]Per deludere fin dall’inizio chi sostiene l’emancipazione femminile tramite l’uso dei pronomi personali, delle desinenze dei sostantivi e di altri interventi grammaticali: usiamo le forme maschili nel senso linguistico tradizionale anche laddove si intendono entrambi i generi e, al contrario, non abbiamo alcun problema a lasciare la forma femminile in “la” persona e “la” personalità, anche se con questi vocaboli si intendono anche gli uomini. Ci risparmiamo l’uso delle doppie desinenze nel trattare gli oggetti della nostra esposizione.
[ 2 ]Per la critica dell’ideologia di un giusto salario e di giuste differenze salariali si veda: Gegen den Moralismus in der Einkommensfrage‘,
[ 3 ]Soprattutto datori di lavoro statali cercano oggigiorno sistematicamente uomini per asili, scuole elementari, cura dei malati e degli anziani. Ciò conferma in primo luogo quanto sia a senso unico l’occupazione in questi lavori femminili. In secondo luogo, testimonia lo sforzo pubblico di relativizzare gli stereotipati ruoli di genere e di confrontare soprattutto i bambini con educatori maschi.
[ 4 ]Forse nessuno, ma lo Stato vede la cosa proprio in questa maniera: il suo Diritto di Famiglia regola i diritti e i doveri all’assistenza per i coniugati, i non coniugati e anche oltre il matrimonio con il chiaro obiettivo di accollare alla cellula sociale, che lo Stato stesso protegge e alla quale concede anche dei benefici, le necessarie prestazioni riproduttive per tutti i componenti.
[ 5 ]L’autoreferenzialità che si esercita sulle donne non solo fa immediatamente soffrire le sue vittime, bensì le costringe a considerazioni particolarmente desolanti, poiché spesso per le donne l’opzione di lasciare un coniuge che picchia e violenta non è disponibile. Di certo non si dà quando esse, in quanto prive di reddito o con un reddito minimo, dipendono economicamente da lui. E così al punto finale della ricerca comune della felicità diviene chiaramente riconoscibile che questa è costituita oggettivamente dall’elaborazione di un rapporto di dipendenza che ha come scopo la riproduzione. E se esse possono soltanto scegliere tra ulteriori sofferenze e la povertà fuori dal matrimonio, allora non ci si meraviglia del fatto che al realismo di molte donne circa la propria desolante situazione, cui non riescono facilmente a sfuggire, si somma un altro realismo secondo cui quell’uomo che le fa soffrire e la vita con lui non possono essere così terribili: i reportage in materia riportano che le donne fanno il conto delle cose “belle” e di quelle “brutte” della vita in comune, cominciano addirittura a cercare in sé la causa del fallimento della loro relazione, si vergognano della violenza che viene fatta loro e cercano di nasconderne i segni al mondo fuori. Gli esperti sanno che occorre sommare ai numeri relativi alle violenze sulle donne un numero molto più elevato di numeri non ufficiali.
[ 6 ]A proposito del “riuscire ad entrare in relazione”: qui ci sono enormi differenze tra gli uomini. L’intera gerarchia di potere e denaro in questa società si riproduce nel sesso extraconiugale. Uomini di potere – politici, capi, produttori cinematografici, anche professori – possono procurarsi senza violenza la dedizione di donne che altri possono solo sognare; il successo rende attraenti. Le donne in questo gioco sono anche, ma non solo le vittime: alcune ci si impegolano per via della fama che ricavano dallo stare accanto ad un uomo importante, altre calcolano per amor di carriera.
[ 7 ]In questa disciplina nel corso della loro emancipazione le donne hanno recuperato in modo impressionante: non si tratta solo di gruppi privati al femminile, persino la televisione del servizio pubblico concede spazi fissi dedicati al divertimento pieno di oscenità e umilianti allusioni al “sesso forte”.
[ 8 ]A questo proposito occorre dire che la morale comune della società vale pure per i ranghi sociali e professionali superiori, quelli in cui sono disponibili abbondanti denari e, dopo il disbrigo dei doveri professionali, e anche più energia, anche se non necessariamente maggior tempo libero.