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GegenStandpunkt 4-97
Il bilancio dello Stato
L’economia del dominio politico
Non si tratta di un bilancio come qualsiasi altro
Quando in autunno i rappresentanti del popolo nelle nazioni
capitalistiche discutono il bilancio, l’attenzione si dirige
innanzitutto e nella debita forma sul rapporto tra entrate e uscite. Il
ministro delle finanze, cui compete l’amministrazione delle casse dello
Stato, giustifica il suo conteggio finale per l’esercizio scaduto e
presenta al parlamento, per l’approvazione, la programmazione per
quello venturo. A questo proposito sono all’ordine del giorno sia
l’esame dei mezzi finanziari disponibili che lo scontro sull’utilizzo
di questi mezzi. Ambedue i lati della contabilità statale dimostrano
che qui non si tratta di un bilancio consueto come viene compilato nel
mondo della proprietà privata: come calcolo delle imprese da un lato,
come quel ben noto “fare economia” col reddito proveniente da lavoro
dipendente” dall’altro lato.
È vero che il rapporto sovrano con il denaro è orientato anche alla
disposizione della maggior quantità possibile di questa materia. Ma
tanto il modo in cui si procurano quanto quello in cui si impiegono le
finanze statali differiscono notevolmente dai calcoli e dalle tecniche
che caratterizzano l’uso delle entrate e uscite praticato da parte dei
privati. Le entrate dello Stato non provengono da una qualche specie di
scambio. Lo Stato il denaro non se lo guadagna, ma se ne impadronisce
tramite il diritto superiore del suo legittimo potere. Le tasse, per
quanto riguarda il loro ammontare e tipo, sono il risultato di
decisioni con le quali lo Stato dispone di parti della proprietà
privata, realizzata e circolante nella società. Pagare le tasse,
corrispondentemente, non equivale neanche ad un atto d’acquisto e non
autorizza colui che paga a pretese di controprestazioni statali: per i
cittadini l’imposta si presenta comunque come detrazione e limitazione
della loro proprietà.
Al tempo stesso l’imposta testimonia anche la dipendenza nella quale lo
Stato si colloca: le sue risorse sono definite e limitate da quanto
rende il funzionamento della proprietà privata sotto la sua sovranità.
Il rispetto per la sua fonte di guadagno il sovrano lo dimostra tanto
più quando s’indebita. I suoi creditori hanno, seguendo la legge di
mercato, il diritto agli interessi, quindi a capitale.
Le spese dello Stato, come già dice il nome, sono un modo di esercitare
sovranità spiccatamente alla maniera dell’economia di mercato. Le cose
ed i servizi che gli servono per la sua attività e che pretende dalla
sua società, lo Stato non li requisisce, almeno che non si tratti di
un’estrema emergenza nazionale. Li compra e li paga, e, procedendo in
questo modo, subordina se stesso al regime del denaro che installa. Il
sovrano politico si sottomette alle leggi dettate da quel regime perché
il suo scopo primario sono il denaro e la sua crescita. Ciò si
evidenzia non solo nella forma commerciale in cui esso “comanda” i
servizi necessari della società, bensì nel contenuto dell’attività
governativa per il quale viene spesa la revenue statale: ogni cosa che
lo Stato si propone, serve a questo scopo. L’ordine dell’economia di
mercato e il risultato economico, a cui il potere statale tiene
soprattutto, ha bisogno di molto Stato; non per la correzione di
quest’ordine, bensì per la sua buona riuscita. Con i suoi bilanci, col
incassare e spendere di denaro, la comunità politica definisce se
stessa e la sua società: le ordina il dominio del denaro.
Nessun piano e nessun comando fonda, nell’economia di mercato, il
rapporto materiale tra i cittadini, esso viene fondato invece dalla
“reale comunità” cioè dal denaro che al tempo stesso è separato e
autorizzato dalla politica. (“Il
denaro è (quindi) immediatamente la reale comunità, in quanto è la
sostanza universale dell’esistenza per tutti, e nello stesso tempo il
prodotto comune di tutti”. (K. Marx, “Lineamenti fondamentali di
critica dell’economia politica”, nuova universale Einaudi 186, 1983,,
p. 165) Avere a disposizione del denaro è la
condizione assoluta per la partecipazione alla ricchezza materiale;
guadagnare denaro è perció lo scopo generale di tutta l’attività
economica. Attraverso il denaro, e solo attraverso esso, i soggetti
privati dipendono l’uno dall’altro e lo fanno in modo antagonistico:
ognuno aspira ad impossessarsi del denaro che l’altro ha. L’offerta che
a questo scopo l’uno deve fare all’altro, utilizza il bisogno di
quest’ultimo come debolezza da sfruttare. Col prezzo che uno realizza
così si decide se, e in che misura, la sua attività dà buona prova di
sé come mezzo di guadagno che è l'unica ragione per cui quest'attività
ha luogo. Lo Stato utilizza il suo potere politico per vincolare i
cittadini al denaro in quanto potere reale che essi esercitano l’uno
sull’altro, e al quale sono materialmente soggetti. I loro sforzi,
indirizzati gli uni contro gli altri, di appropriarsi del denaro,
vengono registrati da parte dello Stato come contributi a quel reddito
complessivo nazionale che esso vuole da loro. I soggetti privati, che
non si occupano di nient’altro che dei loro interessi capitalistici,
svolgono sempre anche un compito politico: il denaro che i cittadini
“producono” con la loro attività economica, l’uno in concorrenza con
l’altro, è l’essenza del potere economico dello Stato.
La base del bilancio: il “mezzo di
pagamento legale” – un denaro
creditizio garantito politicamente
La creazione di denaro da parte dello
Stato:
Il monopolio delle banconote e i suoi
servizi
L’attività economica sia dei cittadini che dello Stato si basano su un
denaro che, nel capitalismo moderno, viene “creato” dallo Stato stesso.
E quando i giornali e gli economisti litigano sulla questione se la
banca centrale mette a disposizione la giusta quantità di denaro,
mostrano che sono al corrente di questo fatto. E se è vero che gli
interessa solo la parte quantitativa, è anche vero che tacitamente
presuppongono quella qualitativa: un ente statale fa il denaro. E lo fa
in un modo più ampio di come lo si faceva nei secoli scorsi, quando il
sovrano garantiva la lega e il peso della merce-denaro oro o argento
attraverso le sue insigne coniate sulle monete. In quanto prodotto di
lavoro, questi metalli hanno essi stessi valore e sono quindi in grado
di esprimere, indipendentemente dallo Stato ed oltre le sue frontiere,
il valore delle merci.
In secondo luogo, „creazione di denaro” significa più del fatto che lo
Stato fa circolare biglietti come soli rappresentanti di quell’oro che
sarebbe altrimenti necessario. La cosiddetta „copertura aurea” delle
banche statali è abrogata. Non esiste più un legame tra l’emissione di
banconote e una certa quantità di tesoro in oro in possesso delle
banche nazionali, sulla quale le loro banconote sarebbero un buono; e
tanto meno esiste l’obbligo da parte della banca d'emmisione di
ritirare le banconote emesse in cambio d’oro secondo una quotazione
fissa. In tal modo la moneta metallica, che ha un valore di per sé, è
stata bandita dagli affari interni e, a partire dalla seconda guerra
mondiale, anche ampiamente dall’interscambio commerciale tra gli Stati.
Essa è stata sostituita da un “mezzo di pagamento legale” fatto di
carta.
Con ciò la banca centrale di Stato si riallaccia a servizi del settore
creditizio privato che, per amor di chiarezza, vengono qui di seguito
richiamati alla mente.
La trasformazione di credito in denaro
da parte le banche: una
trasformazione provvisoria di principio
Già nei pagamenti commerciali le promesse di pagamento servono da mezzi
di pagamento. Un debitore, anziche di saldare la sua fattura, emette un
titolo di credito e il suo creditore contraccambiando gli concede una
dilazione di pagamento, sotto la condizione di un certo compenso, cioè
l'interesse. Con la promessa di pagamento da parte del suo debitore, il
creditore adempie nel frattempo ai propri obblighi di pagamento
consegnando questa promessa a sua volta al suo creditore. Quest’ultimo,
avendo accettato il titolo di credito come denaro, di conseguenza
partecipa all’utile che si attende dagli interessi.
Certamente quest’operazione di cambio è soggetta al rischio, e quindi
alla riserva, che il primo debitore alla fine paghi veramente. La
sostituzione del pagamento per mezzo della tratta è solo un atto
provvisorio e il titolo di credito, usato come mezzo di pagamento, ha
valore solo nella misura in cui il debitore è solvibile alla scadenza.
La cosa diventa più solida ed attendibile quando s’immischiano le
banche, che, fungendo da agenti tecnici dei pagamenti nella società,
amministrano comunque il tesoro monetario del mondo capitalistico, cioè
la scorta di denaro contante guadagnato ed attualmente non utilizzato.
Appoggiandosi su questa scorta, la banca trasforma le cambiali che le
vengono inoltrate in denaro contante ed inoltre fornisce, anche
independentemente da un qualsiasi operazione di cambio, alla sua
clientela dei mezzi di pagamento per la continuazione di vecchie
operazioni e l’apertura di qualche nuova. Anche questo, si capisce, in
cambio di interessi. Per questo la banca non deve nemmeno
immediatamente e direttamente ricorrere alla sua riserva in contanti:
apre un conto a favore dei suoi debitori, gli concede in questo modo di
passarle gli obblighi di pagamento da saldare e pareggia poi, da parte
sua, gli importi che entrano con quelli da liquidare. Così deve
ricorrere ai propri depositi bancari o al proprio patrimonio in
contante soltanto per il fabbisogno di contanti dichiarato o,
all’occorrenza, per il saldo.
Persino ciò se lo può risparmiare se, anziche di pagare in contanti,
emette delle banconote proprie: esse rappresentano la garanzia,
suddivisa in determinati importi monetari stampati sul biglietto, che
questa stessa garanzia viene rimborsata in contanti in qualsiasi
momento. Un tale sostituto di contanti con banconote non ha solo il
vantaggio tecnico di facilitare letteralmente i pagamenti.
Esso dà alla banca, per le sue operazioni di concessione credito, la
possibilità di emanciparsi ampiamente dalla propria riserva in contanti
di cui dispone e per la quale essa stessa deve pagare degli interessi
ai suoi depositanti. La banca non deve nemmeno, per gli impegni di
pagamento da pagare in contanti, intaccare il tesoro monetario
tesaurizzato, non deve quindi neanche attenersi al suo volume limitato,
quando essa paga il suo contante solo idealmente, cioè in forma di
banconote.
Tali promesse di pagamento, ormai prive di scadenza e nemmeno più
legate al pagamento d’interessi, circolano facilmente come contante al
posto del denaro vero. Certo, solo fin quando la fiducia del pubblico
nella solvibilità della banca emittente non è scossa, e quest'ultima
non deve ritirare le sue banconote e pagare realmente oppure fin quando
le sue riserve in contanti bastano per i pochi pagamenti che
nononostante i suoi sostituti del denaro deve tuttavia effettuare.
Oramai tutto dipende da questo fatto: appena le banconote non
rappresentano più solamente il reale tesoro della banca nella relazione
1:1, ma adempiono il loro servizio essenziale - da mezzo creditizio - e
fanno apparire come esistente e disponibile quel denaro che il mondo
degli affari, cui viene concesso il credito, deve ancora guadagnare e
consegnare per l’estinzione dei debiti, allora l’andamento delle
operazioni bancarie deve anche garantire che non nascono dei dubbi sul
‘fatto’ che il proprio mezzo creditizio sia identico a denaro. È
indispensabile che ci siano dei depositanti volonterosi ed in buona
fede che con il deposito del loro guadagno forniscono sostanza alla
sovrastruttura delle banconote. Ma soprattutto ci vogliono dei debitori
di successo che, dagli obblighi di pagamento per i quali la loro banca
garantisce la copertura con le sue banconote, creano ricchezza
capitalistica e confermano così che le banconote emesse hanno valore.
Ciò è importante non solo per l’utile delle banche ma anche per la
validità della ricchezza astratta, che esiste nel mondo cartaceo delle
banconote delle relative banche.
In tal modo il rimpiazzo del contante per mezzo delle banconote rimane
pur sempre provvisorio. Il valore monetario che le banconote
rappresentano è relativo, cioè sottoposto a dei paragoni critici tra
gli emittenti, cosa che, ai tempi in cui questa tecnica finanziaria
esisteva veramente, portava al fatto che le banconote ricevevano una
quotazione vera e propria e, con un aggio o disaggio, venivano
inoltrate ad altri.
E anche complessivamente il capitale bancario rimane in stato precario:
in caso di una crisi creditizia che comunque fa parte del capitalismo,
(l’assennato osservatore di congiuntura non si meraviglia, ma la
registra come “recessione” e se l’aspetta ogni paio d’anni) ogni
fallimento annulla le banconote che sono spiccate sulla banca rovinata
e il deprezzamento della moneta bancaria circolante generalizza
immediatamente il crollo dei movimenti d’affari. Alla fine la
solvibilità dell’intero mondo degli affari è rimandata alle poche
riserve in contanti dai cui limiti il settore creditizio ha comunque
liberato così a fondo il mondo degli affari.
Il divieto di quest’operazione
bancaria e la sua sostituzione da parte
la banca centrale
In questa conseguenza contradditoria s’inserisce la banca centrale
dello Stato con la sua particolare posizione di istituto statale. Con
la sua fondazione viene proibita alle banche d’affari l’emissione di
mezzi di pagamento propri con facoltà di circolare e quindi di
banconote; in rapporto a ciò viene disposta una limitazione della loro
capacità di concedere, facendo riferimento alle loro operazioni
passive, crediti a non finire e di fondare una solvibilità per la quale
non sono affatto in grado di farsi garante in modo fidato.
In cambio le banche d’affari vengono ancora più approfonditamente
liberate dai limiti del tesoro in contanti della società, tesoro che
esse, con le loro operazioni passive, centralizzano presso di sé e che
utilizzano come base della loro creazione di credito. Infatti, per il
rifinanziamento dei loro prestiti e come fonte in contanti per il
pagamento dei loro debiti, che creano sia con l’attrazione di denaro
che ha un costo, sia con l’assegnazione di crediti che, dopo un certo
tempo, devono essere riscossi, gli istituti di credito dispongono
adesso di un conto presso la banca centrale dello Stato, che –
osservando certe regole - gli apre l’accesso alle sue banconote.
In questo diritto d’accesso a denaro della banca centrale consiste, in
ultima istanza, la scorta di denaro della società che le banche
d’affari con la loro assegnazione di credito trasformano in anticipi
per gli affari capitalistici ed in una potenziata solvibilità pubblica.
In questo modo la loro fonte di contanti e quindi la loro potenza per
la creazione di credito è de-limitata in modo decisivo.
Ciò segue dal fatto che, per quanto riguarda l’emissione di banconote,
la banca centrale dello Stato non dipende da parte sua da un tesoro
monetario della società, raccolto e da lei depositato, né da denaro
guadagnato messo da parte e custodito secondo le regole bancarie, e
altrettanto poco dipende da riflussi derivanti dagli affari che
rifinanzia con le sue banconote.
È vero che la banca centrale ha regolato il rapporto con le banche
d’affari in modo che quelle, in cambio del denaro della banca centrale
che possono ritirare per i loro scopi di rifinanziamento, devono
depositare o trasferire dei titoli commerciali di una certa qualità e
che devono cedere alla banca centrale interessi da crediti ancora da
riscuotere oppure pagare loro stessi degli interessi. In questo modo
anch’essa guadagna in forma del tutto regolare sull’affare creditizio
generale.
E seguendo completamente le regole degli affari bancari registra anche
la sua emissione di banconote come un’ “operazione passiva” in quanto
qualcuno è in possesso delle sue banconote, come se questo qualcuno
avesse con le banconote in mano un suo credito non ancora saldato; e la
registra come un’“operazione attiva” quando acquista dei crediti nei
confronti degli istituti di credito e tiene la contabilità di tutte
queste operazioni.
Ma le banconote, con le quali la banca centrale compra dei titoli,
sconta, concede un prestito o che rende accessibili al mondo degli
affari in qualsiasi altro modo, non si riferiscono ad un denaro che
qualcuno ha guadagnato o depositato presso di lei o che deve ancora
arrivare, come è di norma quando si tratta di un affare di banconote
privato; o meglio come sarebbe di norma, se fosse ancora ammesso. Il
„tesoro monetario della società“, che le banconote della banca centrale
“rappresentano”, consiste in nient’altro che nel compito pubblico della
banca centrale dello Stato: nell’autorizzazione, che le viene data dal
potere di Stato, di emettere delle banconote.
Che poi queste adempiano tutte le funzioni di denaro non è quindi una
prestazione che dipende dal successo, una prestazione condizionata
dalla ricchezza di denaro guadagnata che la banca amministra e
dipendente dalla fiducia giustificata nella solvibilità dell’istituto
perché fa buone operazioni attive; piuttosto è la differenza tra
banconote e denaro che viene eliminata per legge.
Le unità che sono stampate sulle banconote sono la misura valida della
ricchezza della società, sono il metro di tutti i redditi e dei prezzi
così come lo furono le unità di peso del metallo nobile di un tempo. E
le banconote non designano, sono loro stesse il contante della società
con il quale alla fine si devono adempiere gli obblighi di pagamento.
“Imitandolo” e monopolizzandolo, la banca centrale porta a termine
l’artificio del settore creditizio che, al posto del denaro, fa
circolare - con la funzione di mezzo da pagamento - dei titoli di
credito, e, contemporaneamente capovolge quest’operazione bancaria : la
banca centrale stessa fonda il denaro che è, senza eccezione, l'unico
denaro da guadagnarsi nella società.
Per arrivare a questo punto, cioè per attribuire a semplici biglietti
cartacei la qualità definitiva di contante, è necessario un potere che
è assolutamente vincolante per tutta la società. Per lo meno le
macchine da stampa della banca centrale sostituiscono non solo intere
miniere di metallo nobile, ma anche la fatica di comprare i loro
prodotti, ammassarli e farli diventare la base per uno scorrevole
movimento d’affari.
Esse creano la „stoffa” di cui la ricchezza della società consiste, non
appena questa ricchezza ha assunto la sua vera ed adeguata forma, e
cioè la forma astratta. Il valore che si presenta stampato sulle
banconote ha la sua “sostanza” in una legge che decreta il
riconoscimento e l’uso delle banconote come contante; ha quindi la sua
“sostanza” in un rapporto di potere al quale, senza eccezioni e senza
autorità concorrente, è soggetto il mondo degli affari con la sua
appendice, la società restante che guadagna e spende il denaro.
Inversamente lo Stato rende il suo monopolio di potere una faccenda
economica, mettendo per legge al mondo l’oggetto del guadagnare denaro
vincolante per tutta la sua società .
“Approvvigionamento” statale di
denaro: come soddisfare il liberato
bisogno di credito e l’esigenza di successo dello Stato
Nel mondo, cioè nel mondo degli affari, le banconote della banca
centrale non sono per il solo fatto che la banca centrale le stampa.
Esse divengono il denaro contante della società servendo agli istituti
di credito come mezzo di rifinanziamento: da essi le banconote vengono
procurate presso la banca centrale attraverso un’operazione passiva
vera e propria in cambio d’interessi e poi messe in circolazione
attraverso le loro operazioni attive.
Già a questo punto è chiaro che “il rifornimento di denaro”, che
lo Stato ha centralizzato e monopolizzato presso la sua banca centrale,
dà alla sua moneta legale “messa a disposizione” un incarico economico:
il suo utilizzo deve fruttare sia presso le banche che si procurano il
denaro e devono pagare per questo servizio sia, di conseguenza, presso
la loro clientela dalla quale esse si fanno dare gli interessi. Tutto
il denaro contante deve la sua esistenza ad un’operazione di credito
che prende le sue mosse dalla “banca delle banche” e pretende un
ulteriore impiego che soddisfa quest’affare.
Portando a termine la sostituzione del denaro con banconote, la banca
centrale porta al tempo stesso a termine l’attività creditizia
capitalista in modo tanto ideale che per così dire capovolge eppure la
“logica” di questa attività.
Presa per sé la sopra spiegata creazione di credito delle banche,
infatti non riesce a staccarsi dalla circostanza di essere basata su
denaro guadagnato e depositato dalla clientela, anche se le banche
fanno di tutto per liberarsi da questa base. Il denaro che si aspettano
dalle proprie operazioni creditizie, denaro quindi che non è ancora in
loro possesso, lo trasformano in mezzi di pagamento con i quali
finanziano i loro crediti. In questo modo pagano i loro anticipi sulla
base di un guadagno futuro. D’altra parte hanno la necessità di poter
ricorrere a denaro derivante dagli affari correnti, non appena c’è
bisogno di denaro contante; e di questo poi devono disporre in quantità
più che sufficiente.
Con la banca centrale e il suo monopolio di banconote alle spalle le
banche dispongono, almeno in linea di massima, (le condizioni che
limitano l’approvvigionamento di denaro modificano questo principio,
quindi presuppongono la sua validità) sempre di denaro contante a
sufficienza e ne dispongono anche senza che prima si siano svolti degli
affari, quindi ne dispongono oltre i limiti degli importi di denaro
contante che sono affluiti e vengono trattenuti nelle loro casse.
In questo modo l’attività creditizia privata viene, grazie
all’approvvigionamento statale di denaro, liberata dalla sua base,
dall’affare commerciale, dalla cambiale, e dalla sua riscossione e così
via (come si è ricordato nella prima parte di questo capitolo) e si
basa invece su quel denaro contante che, sulla via del credito, lo
Stato “assegna” agli istituti bancari come loro mezzo creditizio. Così
lo Stato stesso diventa la „base“ tanto per il denaro contante quanto
per tutto il credito che esiste nella sua società: esso “non attende”
(per inquadrare il rapporto logico con l’immagine linguistica di una
successione in ordine temporale) fin quando “attraverso il commercio”
si apre un’operazione funzionale di prestito e di creazione di credito
che dà slancio a questa opera d’arte economica chiamato capitalismo.
È anzi esso stesso che „avvia“ “dall’alto” tutto il circo
capitalistico: con la messa a disposizione di un mezzo di credito che
non finge soltanto il possesso di denaro contante ma che è
definitivamente il denaro contante, incentiva l’attività creditizia a
condizione che da questa poi nasca tutto il resto della vita d’affari
dell’economia di mercato. Il fatto che la banca centrale applichi delle
norme severe quando assegna questo ideale mezzo di credito, segue di
conseguenza. Queste condizioni sono il riflesso necessario al fatto che
la banca centrale emancipa con il suo denaro contante il settore
creditizio dal limite funzionale, che altrimenti sarebbe dato dal
volume del denaro contante della società, entità tesaurizzata dalle
banche.
Il controllo che lo Stato esercita, con le norme relative al rapporto
fra banca centrale e banche d’affari, sulle attività di quest’ultime,
fa valere in modo pratico il diritto che lo Stato stesso crea
praticamente con ogni banconota emessa. Non è altro diritto che quello
che caratterizza tutto il denaro creditizio: l’affare da esso
finanziato deve fruttare in modo tale che il sostenuto valore monetario
del mezzo creditizio venga confermato effettivamente dal rendimento del
suo utilizzo. Adesso però lo Stato accampa questa pretesa nei confronti
del suo intero mondo degli affari.
D'altronde il valore monetario del mezzo creditizio non dipende più
dall’adempimento di quella pretesa finanziaria nel senso che deve
essere riscossa con denaro contante (in ciò consiste la differenza col
mezzo di pagamento creato privatamente ): il mezzo creditizio
rappresenta di per sé denaro contante, il suo carattere di valore è
garantito per legge.
Ciò non riduce affatto la pretesa; anche il valore che ormai esiste nel
mezzo di pagamento garantito pretende di essere creato con degli affari
proficui, l’avanzo statale, di essere realizzato tramite una vera
crescita di denaro.
Poiché, in un modo che non riuscirebbe mai al mezzo creditizio privato,
anche il mezzo creditizio statale dipende dalla sua conferma attraverso
un utilizzo fruttoso: il valore stesso del mezzo di pagamento fissato
per legge, diventa esso stesso relativo; il denaro contante stesso si
differenzia dal suo valore monetario; l’utilizzo che i capitalisti
della nazione, sempre in concorrenza fra loro, ne fanno, decide in
quale misura.
Questo paradosso è il “prezzo” inevitabile per il fatto che lo Stato
rifornisce il suo settore creditizio nazionale di un mezzo creditizio
ideale. Con ciò lo Stato rende inversamente la sua moneta legale la
misura dei crediti assegnati; e di conseguenza questo denaro dipende
poi completamente dall’affare che nel suo complesso consiste di questi
crediti. Con l’equazione ardita tra anticipo e denaro contante, che lo
Stato decreta, esso sottopone il suo denaro contante ad una prova che
tale denaro, in qualità di credito anticipato, deve ancora superare.
Il suo decreto non annulla l’equazione fondamentale capitalistica,
secondo la quale solo il valore di scambio prodotto e trasformato in
denaro con profitto, rappresenta effetivamente ricchezza sociale; e
neanche persegue l’intenzione di infrangere questa “legge”: lo Stato
insiste sulla pretesa nei confronti della sua società che essa
confermi, attraverso reali risultati di valorizzazione capitalistici,
il suo anticipo.
Con il valore stesso del denaro contante che c'è da guadagnare nella
nazione, lo Stato rende il suo mondo degli affari, l'appendice
lavorativa inclusa, responsabile, affinché produca la ricchezza
astratta che le sue banconote della banca centrale enumerano e
pretendono di aver già realizzato nell’atto della loro emissione.
L’unità di misura di queste cifre è “debole” perché afferma l’identità
fra credito e denaro; l’intera economia della nazione deve obbedire
alla direttiva di dimostrare che la moneta è “forte” e realizzare
l’identità sostenuta, attuando quel “fondamento” di successi economici
che la “sovrastruttura” dell’approvvigionamento di denaro creditizio
postula.
La paradossale identità e non-identità di denaro contante e credito -
che è peculiare delle banconote statali - diviene subito evidente
laddove la moneta legale s’imbatte in una alternativa dello stesso
genere, cioè quando viene equiparata con i prodotti del monopolio di
banconote di altre nazioni, quando quindi viene paragonata con essi:
riceve un valore di quotazione che misura la dimensione nella quale
l’economia nazionale conferma economicamente il valore del denaro
garantito per legge relativamente al rapporto corrispondente tra
prestazione anticipata e le prestazioni d’approvvigionamento di denaro
che esiste in altre nazioni.
Quello che lo Stato con la monopolizzazione dell’emissione di banconote
impedisce all’interno della sua società, si fa valere nell'esterno, fra
gli Stati, su scala più alta: mezzi creditizi che nel complesso
adempiono ugualmente tutte le funzioni del denaro, cosa che poi non
risulta affatto in uguale misura, si fanno concorrenza sulla misura
dell'adempimento di tali funzioni; cioè concorrono sulla prova di avere
veramente quel valore che affermano di avere.
Il mezzo creditizio che lo Stato esonera da tutta la concorrenza
interna per sviluppare ed costringere la sua economia nazionale a
diventare una prova riuscita del valore prestabilito, si rivela come
l’oggetto e la quintessenza di una aperta questione di successo che
definisce il rapporto di concorrenza nei confronti delle altre nazioni.
E di questa questione lo Stato deve prendersi cura a lunga durata
perché principalmente non la si risolve mai definitivamente.
Invece di soddisfare conclusivamente le esigenze economiche non ancora
soddifatte dei suoi capitalisti, il rifornimento di denaro da parte
dello Stato solleva il problema economico politico di una messa alla
prova dell’intera economia nella conorrenza internazionale per
un’identità tra credito e denaro, una concorrenza per l’identità più
riuscita, almeno relativamente.
E qui capita a proposito che il potere di Stato borghese non miri ad
altro che ad affrontare questo problema, ed a farlo in continuazione.
Ma questo è un altro capitolo, il capitolo dell’imperialismo monetario
ed, in conseguenza, il capitolo della violenta salvaguardia della pace
mondiale.
(Il testo è parte di un articolo che è stato pubblicato nel
Gegenstandpunkt 04-97)