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L’imperialismo americano ed europeo
funzionano troppo bene!

È strano, ma tra i potenti di questo mondo e i loro numerosi critici esiste un punto di consenso: il problema, così lamentano entrambi, è che esistono (ancora) troppi ostacoli sia per la democrazia e i diritti umani, sia per la crescita e il benessere, che la libera economia di mercato apporterebbe di sicuro, se non… Però, qui e altrove, politici privi di ogni senso di responsabilità, ristretti interessi nazionali e “miopia economica” impediscono ogni progresso. Così, sollevando la questione a chi attribuire la colpa di tutto ciò, il sistema dell’imperialismo democratico stesso viene continuamente assolto.

L’esame di ogni dettaglio, di ogni settore della concorrenza imperialistica, dei suoi mezzi e dei suoi metodi prova invece sempre la stessa verità amara: le guerre e la miseria, anche “il terrore” e l’“imperialismo” stesso – che non è un’invenzione malvagia del governo americano – non sono causati dal fallimento della politica, così come la disoccupazione e lo sfruttamento nelle imprese e persino l’impoverimento della gente organizzato dalla politica, non sono “errori politici” o conseguenze di “politiche sbagliate” e non sono nemmeno delle “disfunzionalità”. Tutte queste cose sono conseguenze necessarie degli interessi degli Stati e dell’economia di mercato da loro protetta, un’economia in cui nulla gira intorno ad una cosa tanto banale come il benessere del singolo, ma solamente intorno alla sua funzione, in qualità di lavoratore o di disoccupato, una funzione che è finalizzata alla crescita capitalistica.

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I seguenti articoli documentano ed analizzano cinque anni di politica imperialistica e le intenzioni, gli scopi e gli interessi delle posizioni e dei poteri agenti. Spiegano perciò anche le “svolte” che tale politica ha fatto in questi anni, sia da parte delle nazioni europee sia da parte degli USA. Così, seguendo le intenzioni e le “considerazioni” dei politici, gli articoli risparmiano a se stessi e al lettore la questione poco avvincente, se essi abbiano, con i loro interventi, contribuito a dei “progressi” rispetto alla “pace mondiale” o ad un ordine mondiale “più giusto”. La buona causa, a cui si pensa quando sono in questione tali “progressi”, non si può scoprire né negli scopi né negli interessi delle rispettive parti.

Lo stesso vale in relazione ai presunti “processi di apprendimento” derivanti da conseguenze indesiderate della guerra all’Iraq: se la “situazione dopo la guerra” spesso non si presenta come i suoi vincitori se la immaginavano “prima”, questo non cambia assolutamente niente riguardo agli scopi per cui essa è stata iniziata, scopi con i quali la gente del luogo poi viene ancora tormentata, adesso però sotto condizioni modificate. Non è, dunque, consigliabile ignorare questi scopi, assumere idealmente il punto di vista dell’imperialismo e domandarsi sul serio se le rispettive nazioni siano “fallite” rispetto alle loro propagate (buone) intenzioni oppure no. Questo bisognerebbe lasciarlo fare all’opinione pubblica borghese essendo essa competente per la tutela delle stupidaggini nazionalistiche sia della gente comune che di quella intellettuale.

Di conseguenza i seguenti articoli non partecipano alla discussione se all’America nel Medio Oriente ed altrove importa “veramente” la democrazia o “soltanto” l’affermazione dei propri interessi, perché partono dalla conoscenza, forse un po’ caduta nell’oblio, che il valore “democrazia” non è stato mai la reale ragione delle guerre, ma serve solamente alla loro giustificazione, e che con il metodo politico “democrazia” i poteri imperialistici, dopo le guerre, e qualche volta addirittura senza la guerra, non provvedono a nient’altro che all’eliminazione, non certo della miseria, ma di governi che gli arrecano disturbo. Il cinismo con cui, a questo scopo, l’imperialismo democratico, sia di origine americana che di origine europea, usa le misere condizioni di vita della gente del luogo o le produce dapprima con la sua politica e le sue guerre per poi usarle, non può essere facilmente ignorato. Per della gente però, come Fassino o altri, che si offre al pubblico come guida adatta della sua influente o ininfluente, ma in ogni caso ambiziosa nazione, il professare i metodi più attuali della politica imperialistica è allo stesso tempo un dovere e un’inclinazione.

La nostra raccolta di articoli, tratti dal trimestrale “GegenStandpunkt”, non può fare a meno, e questo non a caso, di trattare in prevalenza lo strumento che come sempre è quello decisivo nella politica e che è, alla fine, l’unico “argomento convincente” dell’imperialismo democratico: la guerra.

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Le guerre non vengono fatte perché sono un affare (particolarmente) buono, ma devono decidere le questioni di potere per il giro d’affari mondiale delle nazioni che le iniziano. La dimensione della ricchezza che queste nazioni impiegano per tale fine e la rovina delle fonti di ricchezza, che in questo modo producono e si accollano – per non parlare della rovina della gente e delle sue condizioni di vita – vanno al di là di ogni calcolo d’affari, ma vengono comunque “trattate” quasi come un loro (nuovo) “fattore”. Tale accenno rispetto al rapporto fra ricchezza capitalistica e guerra sia per ora sufficiente: per maggiori particolari si legga l’articolo “crisi e l’economia di guerra negli USA”.

Sul corrispondente rapporto fra impoverimento capitalistico e la lotta attuale delle nazioni per la competenza imperialistica si leggano i due articoli sull’Europa, l’uno sul “confronto internazionale dei salari” in generale, l’altro sulla “questione sociale” in Italia in particolare.

È un errore giudicare la miseria negli Stati “sviluppati” dall’imperialismo “smisurata”: perché ha la sua ragione e misura nella proprietà, cioè nella disposizione escludente della ricchezza sociale, un’esclusione che caratterizza il capitalismo non soltanto nel “Primo Mondo”. Di questo argomento tratta un articolo sulla “miseria nei paesi in via di sviluppo”.

Una versione rivista ed accorciata di un articolo sul patriottismo e il razzismo, che è stato pubblicato nel “GegenStandpunkt” 1-1995, presenta degli argomenti contro la brutta abitudine popolare, anche fra gente totalmente normale, di amare profondamente la propria nazione, di sentirsi “parte di essa” e di non imparare mai la lezione, neanche a proprie spese, e neanche quando “le spese” sono il sacrificio della propria vita per i calcoli politici della “propria” nazione.

Nel “miglior mondo possibile” esiste tuttavia ancora una critica delle sue meravigliose condizioni, però purtroppo a dispetto, o addirittura a causa, delle sue migliori intenzioni questa critica è fuori strada. Due esempi di questa critica completano la raccolta.

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PS. Gli editori sono certamente interessati ad una discussione sulle loro posizioni e i loro argomenti. La redazione del “GegenStandpunkt” è pronta, nell’ambito della sua capacità, a rispondere ad ogni critica o commento.


© GegenStandpunkt Verlag 2005