Mercato mondiale e mercato monetario

La moneta e il suo valore

Sulla concorrenza tra le nazioni per la ricchezza mondiale

Che il tasso di cambio delle valute sia di massima importanza risulta evidente già dal fatto che esso viene calcolato e pubblicato quotidianamente. Le reazioni di chi ne prende atto oscillano tra atteggiamenti pacati di pura osservazione, accese discussioni sui vantaggi e sugli svantaggi legati alle più recenti fluttuazioni, e prese di posizione concitate che sanciscono cause ed effetti, colpevoli e vittime, tendenze promettenti e gravi rischi. La competenza specifica dei relativi commenti dipende dal tipo di interesse che entra in gioco. Colui a cui interessa l’esportazione di merci giudica la svalutazione di una moneta diversamente da chi, in qualità di importatore, lascia trasparire il danno subìto. Per le banche che operano nel settore della compravendita delle divise, la fluttuazione del tasso di cambio assume una rilevanza completamente diversa. Se la valuta da loro favorita subisce una svalutazione, i mercati ricevono delle critiche; se invece è una valuta da loro in precedenza saggiamente venduta a subire il crollo, ai mercati spettano i complimenti per le loro „forze benevolenti”. La massima onorificenza spetta però a coloro che prendono posizione in nome della nazione; per far ciò non occorre essere Presidente del Consiglio o Segretario della Banca Centrale – basta solo fare della valuta nazionale il centro di ogni riflessione e considerare il suo rapporto di cambio verso le valute estere dal punto di vista dei conti dello Stato.
Tale valutazione dell’oscillazione dei cambi assume già di per sé un certo valore in quanto chi ne è autore non prende in considerazione la moneta nazionale come semplice presupposto per interessi commerciali privati, ma assume la posizione di custode e garante del denaro e ne verifica la sua funzionalità, che desidera conservare. Inoltre, il punto di vista del governo tiene senz’altro conto degli interessi del mondo degli affari e riconosce i successi nel commercio con l’estero e nel settore creditizio come fattori determinanti per i conti pubblici. Viceversa considera le operazioni di gestione del bilancio dello Stato come fattori che a loro volta influenzano sia il tasso di cambio che la crescita economica. Questo induce a loro volta gli operatori nel settore finanziario, così come gli imprenditori che nei loro calcoli hanno a che fare col tasso di cambio, ad attribuire la responsabilità per le loro difficoltà economiche ai ministri delle finanze e alle banche nazionali…

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Le riflessioni pubblicate nelle pagine economiche dei giornali non sono di nessun aiuto per la comprensione del concetto di „tasso di cambio”. Quella che viene presentata come chiave di lettura per le colonne dei dati attuali riguardanti i tassi di cambio non è altro che una lista di interessi, vantaggi e svantaggi prospettati dai diversi enti ed istituzioni operanti nel commercio con l’estero. Per loro l’attuale cambio è uno strumento più o meno utile per i loro calcoli; e gli economisti non sembrano per nulla infastiditi se le aspettative nei suoi confronti, contenute nei loro saggi, sono leggermente contraddittorie. Questi esperti si presentano al tempo stesso come avvocati degli interessi dei vari settori industriali e finanziari, nonché di quelli dei consumatori e della banca d’emissione e si aspettano che il tasso di cambio soddisfi tutti questi bisogni concorrenti. Ciò porta spesso a lamentele nei riguardi del tasso attualmente in vigore, cui viene rimproverato di non essere „quello giusto”. Tale idealismo si riferisce senza mezzi termini alla propria nazione, il cui diritto al massimo profitto nel commercio con l’estero rappresenta per gli economisti un fatto ineluttabile. E quando questi ultimi si rendono conto che con le „analisi” del, secondo loro, tanto pacifico commercio internazionale non fanno altro che appoggiare le manovre imperialistiche, aggiungono alla loro parzialità una sorta di ipocrisia super partes, fingendo così una preoccupazione per l’economia mondiale in generale, per il cui sviluppo proficuo nell’interesse di tutti sono necessari tassi di cambio favorevoli …
Tuttavia gli esperti del settore dei cambi, dove si parla di dollaro, euro, sterlina e yen, fanno sì che i lettori della stampa specializzata prendano dimestichezza col fatto che i rapporti sugli andamenti dei cambi rappresentano un aspetto fondamentale nella concorrenza internazionale. Le ragioni che rendono il tasso di cambio e le sue oscillazioni un fattore tanto determinante nell’economia libera di mercato, un fattore che decide il successo di colossi industriali e l’insuccesso di intere nazioni, posti di lavoro inclusi, rimangono invece misteriose. Riflessioni al riguardo sembrano essere confessioni dell’irrazionalismo inspiegabile del sistema capitalista: le variazioni del rapporto di cambio tra valute sono indotte in primo luogo dai „mercati”, che in secondo luogo valutano i loro due vettori, domanda e offerta, in base al rigoroso criterio della fiducia che le valute ispirano …
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Le conclusioni che risultano da questi dogmi economici sono inevitabilmente „circolari”. Le giustificazioni per l’acquisto o la perdita di fiducia nel dollaro rispetto all’euro, per esempio, si riducono tutte alla banale affermazione che uno è diventato più interessante e che l’altro, il dollaro, è stato, come a ben tutti noto, „sopravvalutato” per un lungo periodo…Qualunque altro tipo di commento non aumenta la plausibilità di tali osservazioni. I dati „fondamentali” dell’economia dovrebbero alimentare la fiducia nella valuta – e gli esperti si stupiscono quando gli operatori dei mercati finanziari vendono dollari nonostante i „buoni segnali congiunturali”. Per questa ragione coloro che non si sono attenuti ai propri criteri decisionali esprimono ora una certa preoccupazione circa la „volatilità” dei mercati, con cui hanno dovuto fare i conti.
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È impossibile non notare che gli operatori del mercato monetario internazionale nutrano dei dubbi, non tanto riguardo la logica delle loro argomentazioni, bensì la buona riuscita delle operazioni a cui per lavoro prendono parte. A preoccuparli sono la precarietà del mercato monetario internazionale e l’imprevedibilità che hanno causato attraverso i loro calcoli bizzarri. Abituati a trarre profitto dalle loro previsioni ben fondate circa le tendenze del mercato monetario internazionale, gli operatori dubitano costantemente dell’affidabilità dei loro criteri decisionali. Che i partecipanti ai mercati finanziari globali considerino precari i mercati non è di certo una sorpresa. A stupire è invece il fatto che nessuno accantoni le preoccupazioni quotidiane nei confronti dello „sviluppo” dei mercati monetari, per ribellarsi a questo „circo” che si contrappone nettamente ai dati reali della disoccupazione o dei neri che muoiono di fame; soprattutto dal momento che questo circo nasce proprio dal contrasto tra le varie nazioni a economia libera di mercato, e che esso stesso contribuisce all’inasprimento di tale contrasto.

La causa del confronto tra le valute

Tutto ciò che il tasso di cambio mette in relazione

a) Con l’accordo di rendere le loro valute convertibili gli Stati superano i limiti territoriali delle loro monete. Per la loro moneta, diritto assoluto di appropriazione garantito dal potere all’interno del Paese, pretendono validità oltre i confini della loro sovranità. Rivendicano la validità universale della propria moneta.

Le valute, ovvero le monete nazionali – sono il denaro di riferimento per tutti i calcoli di una nazione. Quello che questa unità di misura nazionale racchiude è tanto „diverso” quanto le classi e i ceti organizzati e territorializzati da un apparato statale. Molte persone dedicano la loro vita al guadagno di denaro tramite il lavoro, che gli viene retribuito da altri in modo più o meno cospicuo, e quasi subito spendono questo guadagno per i beni di prima necessità. Solo una minoranza non „spende”, nel senso vero e proprio della parola, il proprio denaro, ma lo investe per farlo fruttare. Il fisco sottrae dal reddito dei suoi cittadini una certa somma, per creare con essa uno Stato grande e potente. Povertà, ricchezza e potere – le cose più contrastanti vengono misurate con la moneta. Ma la misura del denaro unisce capitalisti e operai, banchieri e politici. Essa è inconfondibilmente nazionale.
Altro Stato, altra unità di calcolo. Le modalità di fare i conti e i modi in cui la moneta viene adoperata però non cambiano. Anche altrove lo scopo di ogni attività economica è il denaro, che viene guadagnato e speso a seconda della quantità di cui uno già dispone. Dopo l’eliminazione delle ultime eccezioni al sistema capitalista, cioè degli Stati del blocco orientale, chiunque può ritrovare le già note funzioni della moneta anche oltre frontiera. L’unità di misura però è un’altra. Là dove termina la sovranità nazionale, finiscono anche le possibilità di utilizzo della moneta nazionale e si entra nel territorio di competenza di un altro mezzo d’acquisto e di pagamento.
È così che l’uomo prende atto di un fatto che solitamente ignora; e cioè che il denaro è una mera questione di potere. Dalle banconote, siano esse scellini, dollari, euro o yen, dipende il potere di disposizione dei privati, perché uno Stato lo garantisce con il suo potere sovrano. In quanto tali le banconote non hanno nessun valore d’uso, però siccome lo Stato lo dispone, ogni valore d’uso e qualsiasi tipo d’utilizzo e consumo dipende dall’acquisto, dal possesso e dalla cessione di tali banconote. Esse non sono solo un’unità di calcolo scelta a piacere per una ricchezza materiale, che altrimenti verrebbe definita secondo la sua utilità – in qualità di titolari del diritto esclusivo di disposizione, le banconote stesse costituiscono la ricchezza materiale delle nazioni ad economia capitalista, e cioè di quasi tutte.
Questo vale naturalmente solo entro i confini della sovranità nazionale, conseguenza del fatto che tale particolare tipo di ricchezza si basa sui rapporti sociali di potere. Ciò non significa però che il denaro sia il fulcro di ogni attività solo all’interno di una nazione e che per i rapporti internazionali invece esista un’altra definizione di ricchezza. Se la ricchezza di una nazione esiste nella sua moneta, questo vale anche e soprattutto nei rapporti con l’estero: tutta la potenza economica di una nazione e dei suoi cittadini in qualità di soggetti economici consiste in nient’altro che nel denaro lì guadagnato. Il potere dei privati di disporre del mondo delle merci, legato al denaro, è inteso dallo Stato, che ne fa da garante, come l’unica espressione valida di „ricchezza”. Tale potere è inteso in senso assoluto e non soltanto come una „regola” in un „gioco di società” nazionale.[i] Se da una parte la competenza della valuta nazionale si estende solo entro i confini statali, dall’altra la ricchezza di cui la valuta è espressione va ben oltre. La moneta è ben più di una „formula di ricchezza” limitata alla nazione: così vuole ogni Stato che impone alla sua nazione il guadagno di denaro come fine economico.
È proprio questa la sostanza dell’accordo tra gli Stati quando essi dichiarano le loro valute convertibili. Nel cambio delle divise gli Stati sanciscono la validità assoluta del denaro, qualità a cui aspirano tutte le valute nazionali.
Tale obbiettivo risultava un po' più comprensibile in tempi in cui il sistema monetario era basato sul metallo nobile.
Il materiale del denaro[ii] era lo stesso in tutte le nazioni mercantili. Il conio autenticava la purezza e il valore reale del metallo circolante. Ed è da qui che deriva la parola „valuta”, cioè „valere veramente”, assegnata alle monete nei rapporti internazionali.

b) La validità universale di una moneta, pretesa con l’accordo di convertibilità, si realizza nella sua funzione economica di mezzo d’affari. Gli accordi statali di convertibilità necessitano perciò di una garanzia materiale: un tesoro di vero denaro universale garantisce infatti la validità della propria moneta anche quando essa non costituisce più un mezzo d’arricchimento. Questo è quello che succede quando le banconote vengono restituite alla banca nazionale di emissione

Le funzioni che il denaro svolge all’estero sono le stesse che esso svolge nel territorio nazionale: comprare, pagare. Per questo motivo, chiunque si trovi ad usare una valuta straniera si sente spinto ad accertarne - oltre all’identità - la differenza con la propria: verificare cioè se il denaro straniero, nelle sue funzioni conosciute, renda come quello nazionale dato in cambio. Cosa che difatti non si spiega da sola, tanto più che per questa verifica non è solo la nazionalità ad entrare in gioco, ma anche coloro che eseguono il confronto tra valute e per quale scopo lo fanno. Chi brucia i resti del suo reddito annuale per cibi e bevande all’estero considera il „potere d’acquisto” del suo denaro in modo diverso rispetto a quanto fa „l’economia”, che s’interessa a tutti i servizi che il proprio denaro e quello straniero, o meglio l’uno rispetto all’altro, possa offrire allo scopo della crescita del denaro stesso. Ciò implica l’acquisto di merci all’estero, ma non s’esaurisce in tale trasferimento. La redditività di un investimento risulta anche dal ricavo delle vendite; e, dato che gli attuali tassi d’interesse ed altri rendimenti vengono resi pubblici quotidianamente, il consumatore medio può rendersi conto che tra le prestazioni delle monete nazionali ci sono altri aspetti da valutare oltre al prezzo della benzina o di una birra.
Ad ogni modo non è un fattore decisivo che il grado di limitazione del livello di vita, determinato dai salari, sia ovunque lo stesso. Ciò che importa è che la ricchezza, usata in modo capitalistico, conservi col cambio di valuta il suo valore e produca incrementi in misura per lo meno uguale alla valuta di partenza. È a questo proposito che le monete nazionali si misurano reciprocamente nel rapporto di cambio, cioè nel test di confronto al quale esse sono sottoposte dallo scambio.
E di regola il risultato è tutt’altro che indifferente: ne valore, ne validità sono uguali. Gli Stati stessi, che hanno imposto il capitale come mezzo di vita della loro società, partono da questo presupposto nel mettersi d’accordo sull’abolizione delle restrizioni territoriali per l’uso delle valute con il fine di far crescere il capitale. Non basta difatti definire un tasso di cambio per dare il via al commercio con l’estero. I sovrani esigono reciprocamente una garanzia economica della validità internazionale delle loro valute. I „custodi” della valuta hanno il compito di garantire la convertibilità delle entrate e dei profitti che gli uomini d’affari provenienti da tutto il mondo hanno ottenuto in una certa moneta nazionale, sempre che i proprietari di questa sorta di denaro non vogliano reinvestirlo là dove lo avevano acquisito. Il „Sovrano” necessita per tale ragione di un tesoro di Stato col quale garantire ai suoi partner internazionali l’uso universale e la piena capacità di rendimento del denaro che egli ha messo in circolazione e che è stato guadagnato da imprenditori stranieri. Rispetto ai tempi della circolazione dei metalli preziosi si è verificato anche in questo ambito un cambiamento: oggi le nazioni moderne adempiono al loro dovere di saldare i conti stranieri con l’oro del loro tesoro nazionale solo in ultima istanza, in primo luogo li pagano con le riserve di divise, che si accumulano finché ci sono imprese che dal loro territorio guadagnano denaro all’estero. La cosa indispensabile è ad ogni modo che il Sovrano dia prova della sua solvenza in una moneta differente dalla propria, per la quale risponde egli stesso con nient’altro che il suo potere sovrano. Deve essere in grado di offrire una moneta che provi a ciascun creditore — cioè a chiunque sia in possesso del suo denaro o di altri titoli di cui esso deve rispondere — la sua qualità di essere strumento d’accesso ovunque nel mondo si prospetti un affare ben promettente. Una moneta, quindi, il cui uso non sia limitato al territorio dov’è stata guadagnata; una moneta di cui lo Stato, obbligato al pagamento, disponga in quanto frutto di attività economiche lucrative dei suoi cittadini conclusesi con successo e che non sia il mero prodotto della coniatura nazionale; una moneta, in definitiva, che sia vero denaro universale.
Tale requisito è particolarmente indicativo circa ciò che conta nello scambio monetario.
c) Nel libero mercato mondiale le nazioni concorrono tra loro con la produttività delle loro economie. Questa produttività determina se una moneta nazionale è in grado di appropriarsi della ricchezza delle altre nazioni o se questa diventa mezzo di arricchimento per esse.
Affinché il commercio internazionale sia duraturo, non basta adottare tutte le precauzioni tecniche necessarie per far sì che, superando le barriere monetarie, si possano acquistare e vendere merci, investire capitali e riscuotere profitti. Il Sovrano del denaro, lo Stato, deve inoltre garantire che un deflusso di ricchezza vera, capitalizzabile – quindi di denaro – sia possibile, e ciò non solo temporaneamente e non solo affinché il denaro venga riguadagnato in tempi brevi. Da principio lo Stato deve provvedere alla situazione che si verifica come conseguenza a bilance commerciali permanentemente negative, e cioè al caso in cui i partner internazionali non accettino più la valuta nazionale per accumulare i loro guadagni in quanto tesoro prezioso in valuta estera, ma arrivino al punto di esigere una valuta straniera. Con la sua riserva aurea e di divise internazionali, la nazione ha il dovere di soddisfare quest’esigenza, cioè di assicurare un trasferimento di ricchezza che non cessi neanche quando cessa di esistere la domanda per la sua moneta convertibile, cioè la sua ricchezza monetaria autonoma. Questa è la condizione sine qua non per poter partecipare al commercio internazionale. E stando così le cose, le importazioni e le esportazioni libere avranno come conseguenza logica e legata ad un ben preciso obbiettivo, l’arricchimento di una nazione ai danni di un’altra e il trasferimento di ricchezza in forma di denaro da una nazione all’altra.
Tale finalità ultima dell’intero sistema, che si mette in moto con innocenti attività di import e export, non si rivela nelle singole transazioni del commercio con l’estero. Il capitalista compie atti di compravendita per realizzare, grazie ad una maggiore redditività, lo scopo di acquistare potere d’acquisto per la sua impresa, eliminare la concorrenza e assicurarsi mercati e profitti. Nel caso in cui elimini dei concorrenti all’interno del proprio Paese, allora avrà imposto lì un nuovo livello di prezzi e di profitti, determinando così una nuova base per l’ulteriore concorrenza per la produzione più redditizia. La crescita del capitale aumenta la ricchezza della nazione. Ma nel commercio con l’estero avviene diversamente. La concorrenza vincente di un’impresa straniera provoca una paralisi nella produzione di ricchezza nazionale o ne impedisce il nascere - cosa che in principio non dev’essere per forza negativa. Tuttavia, ciò che all’inizio comincia con l’integrazione di distributori e acquirenti stranieri nei calcoli imprenditoriali di un capitalista, continua con una concorrenza transfrontaliera tra imprese capitalistiche, va ingigantendosi con l’espansione del commercio internazionale e il sorgere di un mercato mondiale, fino a giungere ad una concorrenza cui nessun’impresa può sfuggire e che colpisce la nazione con i suoi prezzi nonché i suoi saggi di profitto usuali. Se le condizioni abituali all’interno di una nazione non servono a nulla su scala internazionale, se le sconfitte nella concorrenza non sono compensate da successi ma, al contrario, diventano una tendenza causata da una produttività mediamente insufficiente del capitale, allora i bilanci nazionali vanno di male in peggio, e gli affari transfrontalieri, da cui non pochi capitalisti dei paesi sconfitti traggono comunque ancora profitto, si convertono in perdite per la nazione. In questo caso non serve a nulla che in cambio del denaro siano sempre state consegnate delle merci, cioè che sia avvenuto uno scambio equivalente tra le nazioni: concretamente risulta evidente che nel capitalismo solo la ricchezza astratta, presente sotto forma di denaro, è ricchezza ultima e vera e propria. Essa si sposta attraversando le frontiere in direzione opposta al movimento delle merci. La nazione che vive dei prodotti di produttori stranieri non gode di alcun vantaggio ma al contrario cade in povertà.
Questo è ciò che necessariamente succede quando le nazioni confrontano il rendimento del proprio denaro con quello degli altri. Il denaro è denaro; però se la nazione decide di partecipare al commercio internazionale, e quindi al confronto internazionale, e constata poi che la produzione nazionale sia in media meno redditizia rispetto a quella di altre nazioni, allora il „potere d’acquisto” dei compratori nazionali consoliderà la crescita dei suoi concorrenti, peggiorando di volta in volta il proprio livello di competitività.[iii] E viceversa nel caso contrario. La convertibilità delle monete è un modo civile, effettivo e duraturo per arrivare a quei risultati per i quali in altri tempi erano necessarie delle guerre: occupando mercati in tutte le parti del mondo, le patrie di questi capitalisti di successo „conquistano” il denaro di altre nazioni – e in vista dei propri successi si chiedono quale ricchezza e quanto valore prodotto si possano attribuire al denaro di una nazione il cui bilancio sia permanentemente in negativo. Così esigenti diventano gli Stati i cui capitalisti ottengono ampi guadagni nel mondo intero, procurando in tal modo all’economia nazionale una ricchezza crescente. Poiché essi si arricchiscono all’estero, esigono dai loro contraenti sconfitti un tesoro di Stato a garanzia del successo dell’arricchimento.
C’è però anche un altro motivo per cui questa garanzia è necessaria.
d) Lo scambio di valute nazionali mette a confronto anche i tassi d’inflazione nazionali. Il risultato è ancora una volta il trasferimento unilaterale di ricchezza da una nazione all’altra.
Con la loro decisione di fissare i tassi di cambio gli Stati riconoscono le proprie monete come denaro vero e questo sulla base di un determinato rapporto col proprio. Ma la faccenda non si conclude qui. Obbligando i propri cittadini ad acquistare i mezzi di pagamento nazionali, le nazioni si concedono, come si confà ad un governo sovrano, la libertà di contrarre debiti. Da un lato gli Stati soddisfano la domanda di mezzi di pagamento legali che nasce dalla pratica delle banche private di creare crediti, autorizzando in tal modo questa pratica. In questo modo la massa di capitale che i capitalisti possono guadagnare realmente si emancipa sostanzialmente dal valore totale delle merci prodotte. Dall’altro lato gli Stati stessi, con l’usanza copiata dai capitalisti, e liberamente modificata, di contrarre debiti, creano dal nulla ingenti somme di denaro che costituiscono un’offerta interessante per le aspirazioni lucrative del capitale. Vale a dire: mediante titoli di credito, che rappresentano l’indebitamento statale presso la loro società, essi si procurano solvenza, che in qualità di banche centrali creano attraverso l’emissione di banconote. In questo modo, e quindi in perfetta sintonia con il proprio sistema, le nazioni moderne hanno liberato il loro denaro dall’obbligo di dover avere valore intrinseco o di dover essere una specie di titolo che in passato garantiva il diritto a una certa quantità di metallo prezioso puro. Da quel momento ciò che circola all’interno delle nazioni che rendono tutto dipendente dal denaro è, invece del denaro stesso, un’enorme quantità di biglietti ed altri titoli di credito senza alcuna ”copertura” se non quella del potere coercitivo dello Stato.
Questo è ciò che fanno, come detto in precedenza, tutti gli Stati, ma in dimensioni differenti e con un diverso rapporto con la ricchezza prodotta dalle loro società e misurata in denaro. In tal modo tutti gli Stati creano un grande raggio d’azione che gli imprenditori utilizzano per far valere la loro banale abilità nell’assorbire tutta la domanda solvente esistente, cioè nell’accaparrarsi tutto quello che possono. Alla fine gli imprenditori aumentano la totalità dei prezzi locali, destando così la preoccupazione dei custodi ufficiali della moneta, che vedono in tutto ciò un fenomeno inflazionistico – letteralmente parlando un incremento dei crediti e del denaro senza una corrispondente crescita del valore alla quale i crediti si riferiscono, e ciò avviene nonostante il denaro rappresenti questo valore in forma vigente, unica e definitiva. Logicamente questa tendenza si accentua quanto più un potere statale crea solvenza propria, oltre la ricchezza realmente prodotta nella nazione. Che il governo agisca in questo modo solo perché non ritiene soddisfacente la ricchezza raggiunta, non da ultimo con l’intenzione di stimolare la crescita capitalistica per mezzo di „iniezioni finanziarie”, non importa. Qualunque siano i motivi, necessità o buon’intenzione, non servono a nulla: l’indebitamento pubblico modificherà sempre la misura stessa della ricchezza nazionale.
Le conseguenze per il commercio internazionale e per il confronto tra le monete non si fanno aspettare. In primo luogo ne risente la concorrenza tra i capitalisti dei diversi Paesi. Il livello dei prezzi favorisce quei capitalisti che dispongono di una moneta forte: i capitalisti in un Paese con un maggiore tasso d’inflazione devono competere con un livello di prezzi più alto rispetto a quelli che possono operare con una moneta meno svalutata. Il maggiore tasso d’inflazione di un Paese rende più facili e unilaterali i guadagni ai suoi danni.[iv] Le libertà che le nazioni si prendono al loro interno generando denaro-credito si scontrano così con il buon esito delle bilance internazionali, di grande importanza per gli Stati stessi. D’altro canto, per i partner commerciali di un Paese con un tasso d’inflazione particolarmente alto sorge spontanea e urgente la domanda circa il reale valore della moneta lì acquistata. Non serve a nulla il fatto che se ne possa guadagnare di più e in modo più facile, se poi in relazione ad un’altra moneta più forte questa renda sempre di meno – non solo come mezzo di pagamento, ma soprattutto come anticipo per investimenti redditizi. Inoltre questa debolezza non colpisce solo i guadagni realizzati attualmente da un commerciante piuttosto che da un altro. Anche il denaro guadagnato in precedenza, e che ora si trova nelle riserve di divise di altre nazioni, serve infatti sempre meno (o per niente) all’unico scopo per cui le nazioni lo accumulano, e cioè come garanzia per il commercio con l’estero. Questa è l’ennesima dimostrazione che il flusso di ricchezza in forma di moneta nazionale convertibile proveniente dal partner commerciale non sia per niente sufficiente: ciò di cui bisogna accertarsi espressamente è che tutte le valute straniere acquistate costituiscano e mantengano valore reale, e non rappresentino solamente titoli di credito sempre più inutili.
Per questo motivo è doppiamente raccomandabile, soprattutto in caso di un partner commerciale più debole, assicurarsi che le sue riserve di divise siano sufficienti. Se il commercio di una nazione realizzato insieme con lo Stato, garante del successo nazionale, vuole servirsi di un partner più debole per il proprio profitto, non basta obbligarlo a pagare in moneta universale, ma in aggiunta occorre che tale partner assicuri il profitto con una valuta più stabile della sua interna. Certamente in tal modo l’esaurimento delle sue riserve di divise risulta essere troppo prevedibile, e con ciò sarà evidente l’ammissione che il denaro della nazione in questione non è più vero e proprio denaro, o quantomeno che esso non rappresenta più la ricchezza promessa dal tasso di cambio. Questa rivelazione non arriverà un giorno all’improvviso e in forma definitiva, quando ormai sarà troppo tardi, ma si presenterà in maniera graduale sotto forma di svalutazioni. Queste ultime riducono l’intera ricchezza della nazione correggendo verso il basso il suo metro di misura in relazione alle altre valute, fino ad ora vincolante. Ogni attuale tasso di cambio rappresenta un test pratico e critico per verificare se la capacità di una divisa di mantenere nonché di accrescere la ricchezza capitalistica resista al confronto con le altre valute; ogni revisione del tasso di cambio attesta in termini percentuali di quanto la qualità di denaro della moneta in gioco sia venuta a mancare.
In questo modo il confronto tra le valute mostra fino a che punto la moneta di una nazione sia caduta in rovina a causa del deflusso di ricchezza nazionale verso l’estero – e, viceversa, della misura in cui il Paese più forte assorbe la ricchezza guadagnata all’estero tramite i suoi capitalisti. È così, attraverso convertibilità e scambio di valute, che si differenziano continuamente i vincitori del commercio mondiale dai vinti.

e) Il risultato inevitabile dello scambio internazionale di monete è l’insolvenza per gli Stati che ne escono perdenti. Nell’interesse di un continuo arricchimento nei loro confronti, la comunità internazionale degli Stati concorda di considerare i loro debiti come ricchezza, una ricchezza garantita tramite il pagamento di interessi a cui vengono obbligati.

Affinché il commercio con l’estero non si arresti proprio nel momento in cui risulta particolarmente vantaggioso per il Paese vincitore, e cioè a causa dell’insolvenza dei partner più deboli, le nazioni moderne, per saldare i loro crediti e debiti, invece di ricorrere al tesoro di Stato del Paese straniero o al proprio, hanno deciso di portare avanti questi affari unilaterali, annotandosi i debiti, non rinunciando ad esigere gli interessi e utilizzando in questo modo i debiti stessi come se fossero denaro.
Questa cattiva abitudine è nata con la creazione di un fondo comune, una specie di „tesoro statale internazionale” alimentato dai versamenti in oro e in moneta nazionale degli Stati membri, che veniva così ufficialmente riconosciuta nel mondo come espressione nazionale della ricchezza assoluta perseguita da tutte le nazioni. A tale fondo potevano ricorrere, secondo regole ben definite, nazioni in situazioni di insolvenza imminente. Esse potevano così saldare i loro debiti grazie al „diritto” quantificato con precisione di prelevare denaro riconosciuto dal fondo comune a causa della loro situazione „speciale” – i cosiddetti „Diritti Speciali di Prelievo” o DSP. L’idea era quella che potevano esserci di tanto in tanto nazioni con ”problemi di liquidità”, ma che queste dovevano poi ricevere gli aiuti necessari a evitare che essi si aggravassero e, grazie all’intervento di validi esperti delle nazioni più potenti, a superarli definitivamente. Questa idea di partenza del „Fondo Monetario internazionale” (FMI) conteneva da sempre una piccola bugia: ciò che qui viene definita come una semplice „scarsità di liquidità” non è nient’altro che la conseguenza prevista e inevitabile del fatto che alcuni Stati devono ammettere, a causa della loro partecipazione al commercio internazionale, di non possedere più denaro. Con l’istituzione del FMI si è di fatto dato vita a qualcosa di più che un semplice sistema di sussidi temporanei.
Le potenze economiche mondiali hanno concordato di sospendere le dichiarazioni di insolvenza, che in realtà sarebbero inevitabili, al fine di impedire che ”partner” che ne avrebbero avuto tutti i motivi abbandonassero il libero mercato mondiale. Con questa decisione esse non solo hanno rimandato il raggiungimento dell’equilibrio dei conti con gli altri Stati attraverso il pagamento di ricchezza astratta, ricchezza a cui tutte le nazioni aspirano nello stesso modo ma che realizzano con risultati molto diversi tra loro. Tali potenze hanno bensì addirittura sostituito il raggiungimento dell’equilibrio dei conti tramite la decisione di riconoscersi reciprocamente le promesse di pagamento e in questo modo di trattare i titoli di credito come se fossero denaro. La libertà che si prendono all’interno del loro territorio, cioè in virtù della loro sovranità, di soddisfare il bisogno di denaro attraverso certificati di debito che, in qualità di sostituti del denaro circolante, alimentano la solvibilità nazionale, viene trasmessa ai rapporti tra gli Stati che se la concedono così a vicenda. In tal modo cancellano in accordo tra loro il risultato dell’esame a cui il confronto e lo scambio di divise sottomettono permanentemente la produzione di ricchezza nazionale e il denaro che ne deriva. Questa generosa concessione ai più deboli persegue e pertanto realizza lo scopo di non interrompere il flusso di ricchezza dai Paesi vinti verso quelli che ai loro danni traggono profitto. Per assicurarsi la continuità del loro arricchimento i vincitori della concorrenza internazionale arrivano persino all’assurdità di registrare i deficit dei loro partner rovinati come voci attive nella loro bilancia dei pagamenti, insistendo imperterriti sulla loro qualità di denaro vero e proprio. Naturalmente sono i debitori a dover rispondere di tutto ciò. Essi devono dar prova della qualità di denaro dei loro debiti attraverso puntuali pagamenti di interessi – anche se essi stessi , mai senza lunghe negoziazioni, vengono prorogati e a loro volta convertiti in nuovi debiti e, insieme con la somma originaria, vengono sottoposti a nuovi tassi d’interesse …

f) L’affidabilità di uno Stato in qualità di creditore diventa il criterio decisivo per il confronto delle valute e la facoltà di decidere su di essa è stata assegnata ai cambisti internazionali.

Questa manovra ha permesso l’ingresso di alcune novità nella quotidianità del confronto tra le divise.
E così ci sono Stati - e non solo i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, ma anche „nazioni rispettabili” – che anno dopo anno continuano le loro attività economiche con disavanzi cronici nella bilancia commerciale. La loro solvibilità è garantita da interventi internazionali di concerto; persino l’utilità delle loro valute a livello internazionale viene assicurata, perché altrimenti moltissima della ricchezza che altri hanno guadagnato ai danni di queste nazioni, dovrebbe venire annullata, cosa che pregiudicherebbe la continuità degli affari. Naturalmente tale procedura dà vita a nuovi criteri per il confronto delle divise: se la qualità monetaria delle divise nazionali deriva dal consenso della „Comunità dei concorrenti” , che concede crediti alle nazioni insolventi, allora il tasso di cambio della divisa di tale nazione non ne rappresenta più la capacità – in diminuzione – di creare capitale sul mercato mondiale. Esso diventa più che altro una sentenza sulla capacità creditizia della nazione in questione e sulla sua affidabilità relativa in quanto Paese debitore cioè pagante interessi – tutto ciò sulla base della decisione sopranazionale di non far crollare la valuta sostenuta dal denaro prestato. Tra tutte le prestazioni della moneta che il tasso di cambio permette di mettere a confronto al di là delle frontiere valutarie, decisiva risulta la qualità nazionale di attirare investimenti finanziari, cioè la stabilità del valore riconosciuta ad un titolo di credito di una nazione ed i rendimenti promessi. In modo così complicato le nazioni capitaliste, che rinunciano volentieri a saldare i conti tra loro in denaro, fanno ritorno alla verità fondamentale del loro sistema economico, vale a dire al fatto che ciò che conta tra di loro non sia nient’altro che la ricchezza astratta assoluta. È per questa, e non per pezzi di carta senza valore, che esse sono in concorrenza tra loro.
L’“agenzia” incaricata di questo confronto tra le valute è una creatura degli Stati protagonisti del mercato mondiale, è autorizzata e dipende da loro ma non è sotto il loro controllo. Stiamo parlando dei mercati finanziari internazionali o, in breve, dei „mercati”. Pezzi di carta „nazionali” privi di ogni valore, titoli di credito non convalidati da una sovranità superiore ma dalla decisione collettiva dei diversi poteri supremi vengono affidati al senso degli affari dei capitalisti finanziari per un loro ulteriore impiego secondo i criteri di valorizzazione capitalista. La fiducia che gli Stati dimostrano nei confronti del capitale finanziario è del tutto logica. Già nel loro territorio sovrano infatti, gli Stati borghesi organizzano e garantiscono un sistema creditizio che fa uso dei debiti come pagamenti e elimina il carattere fittizio di questa discutibile equivalenza, applicandola concretamente e con successo ai loro affari – fin tanto però che tale successo persista. Si agisce quindi come se l’utilizzo dei debiti come capitale monetario che porta interessi provasse la solidità, cioè la qualità dei debiti di essere denaro. È un’abitudine consacrata nel capitalismo moderno dedurre dai rendimenti l’esistenza di una somma fittizia corrispondente, impiegarla come se fosse ricchezza esistente, addirittura venderla o usarla come garanzia per ulteriori prestiti. Sembra quindi logico che le nazioni stesse, dopo essersi messe d’accordo per prendere nota dei debiti invece che saldarli, ricorrano a tale abitudine nella gestione dei debiti internazionali. Qui il capitale finanziario può dimostrare una volta di più la sua facoltà di equiparare debiti e denaro vero e proprio – anche se, una volta per tutte, questi non sono la stessa cosa – e di utilizzare entrambi indistintamente, o addirittura preferire il titolo di credito, cioè il certificato di debito accettato, alla moneta contante. Chiaramente così si corre il rischio che il mondo degli affari finanziari, famoso per la sua crudeltà, riveli la carenza – relativa – di valore di alcuni titoli, come succede regolarmente anche all’interno delle economie nazionali capitaliste. A maggior ragione gli Stati puntano in modo più determinato al giudizio professionale dei capitalisti finanziari, sicuri che questi ultimi giudichino in modo assolutamente oggettivo la sostanza capitalistica dei loro debiti, in quanto questi rappresentano nientemeno che materia aggiuntiva dei loro affari. Sono convinti che il loro nuovo metodo di portare la competitività per la ricchezza mondiale oltre il margine di solvibilità di intere nazioni, creando così un mondo completamente nuovo per gli affari finanziari, corrisponda perfettamente alla logica dell’economia che desiderano realizzare a tutti i costi. Gli Stati agiscono come se i loro titoli di credito fossero realmente valore, quando essi, oltre ad essere dichiarati come tale dai padroni del denaro, vengono anche accettati in qualità di ricchezza – addirittura - dai commercianti finanziari liberi e come se i risultati economici di una nazione venissero garantiti dal fatto che la classe dominante trae profitto anche dal confronto dei debiti nazionali.
Le nazioni del commercio mondiale, difatti, sottomettono il bene supremo del capitalismo, il denaro, - materia definitiva della ricchezza del mondo intero – al funzionalismo del sistema creditizio. Ma le nazioni la vedono al contrario e affermano la loro scelta del sistema creditizio come garanzia pratica dell’identità fondamentale tra debito e denaro e, allo stesso tempo, come massima autorità competente che decide sulla parità relativa dei loro debiti con il denaro.
„I mercati” si sono assunti tale incarico. Dinanzi ad un affare di tale grandezza non possono sottrarsi alla loro responsabilità imperialistica.

La prassi del confronto valutario

Come si arriva ai tassi di cambio

Fino a solo qualche decennio fa i tassi di cambio e le loro variazioni erano un affare di Stato di massima importanza che poteva causare la caduta di un governo. Oggi si tratta di attività quotidiane delle Borse – dimostrazione esemplare della riuscita privatizzazione di un servizio pubblico. Difatti non si può dire che le più importanti nazioni del mondo capitalista si siano danneggiate „liberalizzando” la comparazione delle valute, affidandola a cambisti professionisti. Particolarmente interessante è quindi sapere come questi riescano a trovare sempre i rapporti di cambio corretti – o alla fin fine si tratta di quelli sbagliati?

a) Il settore bancario, occupandosi dei bisogni di scambio di importatori ed esportatori, arriva così a giudicare la qualità delle diverse valute. Questo giudizio sommario è espresso dal tasso di cambio.

La moneta estera viene guadagnata da esportatori e richiesta da importatori. Questo settore del mondo degli affari fa i conti, un po’ come il turista, con i tassi di cambio esistenti; in modo leggermente diverso che il turista però, importatori ed esportatori fanno i conti con due tipi di prezzi, confrontando le opportunità commerciali nazionali con quelle all’estero: non sono loro però a stabilirli. Produttori e commercianti che vogliono guadagnare denaro nel commercio con l’estero si ritrovano, col tasso di cambio, sottomessi ad un confronto prestabilito tra la moneta valida nel loro Paese d’origine e il denaro che essi vogliono guadagnare o investire proficuamente altrove.
Procurare le valute a loro necessarie, così come conservare, amministrare e fare continuo impiego di quelle guadagnate, sono compiti che spettano alla loro banca. E proprio questo settore, quello bancario, ha già concentrato presso di sé la ricchezza monetaria della società, per fare di essa e di ogni transazione nel commercio nazionale un mezzo per i suoi affari creditizi. E col denaro di denominazione estera le banche non fanno alcuna eccezione, esclusa naturalmente l’aggiunta del pagamento per l’atto del cambio: le valute vengono acquistate con uno sconto e vendute con un sovrapprezzo.
Questo è il modo in cui le banche vengono ricompensate ed è sempre lo stesso, ciò che varia è il tipo di servizio che si fanno pagare. Dipende soprattutto da quello che apportano e da quello di cui hanno bisogno i loro clienti attivi nel commercio con l’estero. Poiché per una banca che raccoglie tutto ciò e gestisce l’aggregato di tutte le valute guadagnate e desiderate, una valuta estera non è per nulla ugualmente straniera ad un’altra. Le divise offerte e domandate, e allo stesso modo addirittura il denaro della propria nazione, rivelano agli istituti di credito caratteristiche speciali delle quali il loro cliente coi suoi interessi commerciali particolari e limitati non si accorge affatto. Ci sono valute che affluiscono e escono in grandi quantità. Il loro commercio risulta per questo facile: in tali proporzioni sia l’ingresso che l’uscita apportano buoni profitti. L’accumulo di tali divise ha lo stesso valore per la banca di un deposito di moneta nazionale: una base sicura per le operazioni di credito in ogni divisa. In quanto, in caso di bisogno, il cambio di una valuta tanto apprezzata in qualsiasi altra divisa è facile e veloce. Si tratta quindi senz’ombra di dubbio di denaro di qualità. Denaro di qualità sono anche ovviamente le divise richieste in grandi quantità, il cui afflusso però è scarso. Per acquistarle bisogna tuttavia mettere in conto costi maggiori; la quantità richiesta non si può soddisfare infatti con ciò che passa attraverso le casse delle divise nelle banche, ma deve essere presa in prestito o acquistata da partner stranieri. Una necessità che mette la moneta nazionale sotto una cattiva luce, in quanto la richiesta nei suoi confronti è evidentemente troppo bassa. La controprova è data dalla transazione inversa, cioè dalla domanda di divisa nazionale da parte dei colleghi stranieri: quanto più forte e unilaterale è la domanda, tanto più grande è il margine di discrezionalità per vendere la propria valuta a caro prezzo. In termini bancari questo è indice della sua grande qualità; viceversa nel caso contrario. Dopo tutto, tra le monete che confluiscono nelle banche, sia da parte della clientela esportatrice, che di quella dei cambisti stranieri, ce ne saranno sempre alcune con le quali non è possibile concludere nessun affare, se non quello stesso dell’acquisto. Esse non vengono richieste, cosa che rende difficile cambiarle in valuta di qualità, e per questo motivo risultano anche inadatte come garanzia e base per la creazione di crediti. La transazione di cambio può in questo caso ritenersi conclusa solo quando questa valuta è stata scambiata in moneta utile; nel peggiore dei casi presso la banca centrale del Paese che l’ha emessa e che garantisce per essa. Una complicazione che naturalmente costerà al cliente delle detrazioni speciali dal tasso di cambio ufficiale. Ciò elimina ogni dubbio: questa moneta è di cattiva qualità.[v] È la realtà concreta degli affari che sancisce questo giudizio finale.
Gli istituti di credito sono quindi a servizio dei loro clienti operanti nel commercio con l’estero, ma questo è solo l’inizio. Essi sintetizzano profitti e bisogni degli esportatori a livello nazionale, il che significa che attraverso le loro attività di scambio essi trasferiscono a saldo ricchezza da una nazione all’altra. Registrano il risultato complessivo delle entrate e delle uscite di denaro per la loro nazione e allo stesso tempo per i loro partner commerciali. Tramite questo confronto dei bilanci generali i cambisti fanno i loro affari; affari con il rapporto finale tra la ricchezza che entra e quella che esce, cioè col valore che le diverse monete nazionali hanno in relazione alle altre e col grado di facilità con cui si possono scambiare con altre divise. Il settore bancario effettua un confronto tra i rendimenti delle economie nazionali e di ciò si alimenta, considerando con i suoi aumenti e sconti nel cambio quali nazioni nel commercio mondiale, quando questo interessa la propria nazione, chiudono con perdite parziali o totali di denaro, quali invece si arricchiscono e fino a che punto lo fanno in modo unilaterale. Al centro di tali affari c’è sempre la moneta della propria nazione[vi]: è infatti la categoria cui il denaro appartiene che pregiudica la compravendita di valute. Il mezzo di tali affari consiste nel valore della moneta nazionale in quanto tale, e non nell’affare capitalistico che si può realizzare con una qualunque somma di denaro, a casa piuttosto che all’estero; cosa che spetta ai commercianti con l’estero.
Nei confronti di questi ultimi le banche rappresentano il punto di vista del bilancio totale dei conti della nazione e stabiliscono così la condizione decisiva alla quale gli affari commerciali devono sottostare. Il tasso di cambio, dal quale i cambisti traggono profitto, mostra ai commercianti come essi siano mere parti integranti di un’intera vita economica nazionale, e come attraverso le transazioni oltre frontiera essi non diventino altro che meri elementi di un’altra economia nazionale. Tutte le reali operazioni di commercio con l’estero sono subordinate al confronto del rendimento, cioè alla capacità di accumulare ricchezza di una nazione rispetto ad un’altra, confronto attuato nello scambio delle divise e divenuto, nel tasso di cambio, condizione intoccabile per tutti gli affari. Questo è ciò con cui la banca lavora nella compravendita di divise nonché ciò da cui essa trae i suoi profitti. Se le banche in primo luogo non fanno altro che offrire un servizio per ciò che concerne il lato finanziario delle attività d’import ed export, esse ricoprono in secondo luogo, rispetto ai produttori e commercianti capitalistici, il ruolo di reale capitalista collettivo della nazione, che tramite il prezzo delle divise sancisce il livello di ricchezza nazionale rispetto al resto del mondo. In tutto ciò non si occupano per niente dei singoli e particolari interessi dei loro clienti.
Con i loro bilanci complessivi e intoccabili le banche non si lasciano nemmeno guidare dagli interessi del capitalista collettivo ideale, da cui arriva il denaro che esse poi scambiano con la loro competenza negli affari. È vero che per loro la valuta nazionale è l’unità di calcolo fondamentale, ma nulla di più: non è altro che lo strumento con il quale e sul quale realizzare i loro profitti. Sicuramente le banche hanno, così come il loro Stato, un interesse primario nel disporre di denaro di buona qualità, e nessuno sa meglio di loro che questo dipende dal successo capitalistico della loro nazione. Il loro interesse non ha però niente a che fare con la preoccupazione di realizzare dei bilanci positivi, come invece è per i governi. In qualità di capitalisti finanziari, gli esperti negli affari monetari nazionali fanno ciò che possono per trarre il maggior profitto, ai costi dello Stato o delle aziende importatrici ed esportatrici, da una moneta di scarsa qualità, o per guadagnare con una più grande facilità da una moneta di buona qualità. Fanno ciò secondo punti di vista e nell’ambito di affari che si allontanano sempre più dal buon senso comune, senza però perdere nulla della loro logica imperialista.

b) I cambisti speculano indipendentemente dai bisogni di scambio dei loro clienti. La loro ricerca di solidità si riflette nella volatilità dei tassi di cambio.

Già nell’usuale commercio di divise, l’interesse bancario di accumulare moneta nel commercio di denaro, soddisfacendo la domanda dei commercianti internazionali e convertendo le divise in moneta nazionale, è di per se un punto di vista proprio e distaccato dagli ordini ricevuti. Questi derivano dai profitti realizzati o calcolati nell’acquisto e della vendita di merci; ed è in questo modo che sorgono le domande e le offerte dirette alle banche. I cambisti invece aprono il loro speciale mercato spinti da principio dall’interesse di approfittare delle differenze che risultano dallo scambio della propria divisa nazionale con un’altra. Ogni variazione nell’andamento degli affari rappresenta per loro un’opportunità. Quando, in che misura e con quale anticipo nell’una o nell’altra valuta entrare in gioco con lo scopo di avvantaggiarsi di prezzi d’acquisto marginalmente più bassi e prezzi di vendita più alti, non lo decidono secondo i desideri attuali dei clienti, bensì secondo i margini da loro calcolati. In qualità di agenti della creazione nazionale di credito non hanno in ogni caso alcun problema con la quantità di moneta, cioè non corrono mai pericolo di trovarsi senza denaro in vista di affari lucrativi. Le scadenze e il volume delle transazioni di divise operate dal settore finanziario non sono determinate da nient’altro che dalla possibilità di realizzare successivamente un profitto con la transazione inversa. In questo modo affari futuri danno vita ad affari presenti; in relazione a ciò gli ordini di compravendita della clientela bancaria commerciale si convertono in un fattore di minore importanza - ad ogni modo periferico al calcolo bancario. La domanda e l’offerta che dominano il mercato dei cambi sono opera dei cambisti stessi con la loro speculazione.
Questo tipo di affari funzionava già quando le nazioni protagoniste del commercio mondiale tenevano ancora severamente sotto controllo statale i loro tassi di cambio – margini da sfruttare erano comunque sempre presenti. È chiaro però che questo si è enormemente diffuso a partire dal momento in cui tutte le grandi potenze economiche hanno ampliato il campo d’azione della loro industria nazionale creditizia. A quest’ultima spetta ora il compito di determinare, così come sul suolo nazionale attraverso il tasso d’interesse, il prezzo giusto e leale per la propria divisa all’estero tramite il tasso di cambio. Da allora i cambisti si confrontano tra loro con i loro calcoli azzardati, calcoli che non sono in alcun modo limitati dall’arbitrio delle autorità, ma solo dedotti dalle loro proprie considerazioni circa la buona o cattiva qualità di una divisa. Liberamente e con accanimento essi mercanteggiano su piccolissimi importi e differenze finché non trovano un accordo su un tasso di cambio che faccia prosperare la loro speculazione – oppure no. In questo modo il tasso di cambio stesso si trasforma da punto di partenza in oggetto, mezzo e risultato, rivisto in continuazione, di un affare commerciale che conta sui cambiamenti che l’affare stesso produce.
Tale progresso dell’affare creditizio ha delle conseguenze. Dall’andamento degli affari speculativi con le divise non dipendono più infatti solo le condizioni alle quali i commercianti internazionali ottengono il cambio delle loro divise. Quando i cambi stessi diventano oggetto e risultato della speculazione, gli agenti di cambio rendono in primo luogo flessibili in una quantità finora non conosciuta i proventi del commercio con l’estero, ma non solo questi. Flessibile diventa in secondo luogo anche l’intera ricchezza monetaria, quella privata così come quella pubblica, di tutte le nazioni. Non c’è più denaro che venga protetto dallo Stato e salvaguardato nel suo valore fissato amministrativamente. È però esattamente in questo modo che le potenze commerciali mondiali volevano averlo, per poter ottenere così accesso alla ricchezza di tutte le nazioni e per far decidere la loro concorrenza sulla sua distribuzione. La totalità degli investimenti finanziari, i titoli di credito più sicuri di tutte le nazioni, sia le obbligazioni che i titoli statali, diventano oggetto del confronto tra le divise e diventano instabili nel loro valore.[vii] Tutti coloro che devono sopportare l’oneroso carico di un patrimonio finanziario non devono più occuparsi solo dei suoi rendimenti, ma stare attenti che il valore di tale patrimonio non diminuisca per la stupida casualità di esistere in una valuta piuttosto che in un’altra, ma che approfitti di tutti gli aumenti relativi di valore che si verificano.
Naturalmente anche in questo possono confidare nelle loro banche. Il settore finanziario stesso converte difatti tutti gli investimenti in materiale per le sue speculazioni; o meglio: includendo il „fattore” cambio, rende la speculazione finanziaria, che esso realizza in ogni nazione, internazionale. In questo modo le opportunità e i rischi si moltiplicano – i tassi d’interesse possono essere messi a confronto con le variazioni previste del cambio e i crolli dei tassi di cambio con gli aumenti improvvisi degli interessi; possibili nuove costellazioni future danno vita a reali nuove „futures & opzioni”, che si lasciano vendere come se fossero denaro. Il criterio guida ultimo in tutto ciò è abbastanza primitivo: in quanto rendono tutto insicuro e ogni titolo instabile, gli speculatori inseguono l’ideale del tesoriere e cioè la stabilità del valore. Perseguendo l’ideale degli investimenti finanziari indistruttibili essi ammettono praticamente la verità, negata milioni di volte, che nel capitalismo ciò che conta è il denaro vero e nient’altro. La loro ricerca instancabile della divisa più solida è a sua volta la forza motrice dell’insicurezza che essi stessi diffondono nel loro mondo di titoli e interessi; e naturalmente le banche lasciano partecipare volentieri i clienti a tutte le loro avventure finanziarie e, ancora meglio, li lasciano rispondere per esse con i loro depositi.
Tramite questo „circo” si decide la distribuzione mondiale del credito, con il quale produttori e commercianti capitalisti delle diverse nazioni possono poi fare i loro affari e gli Stati la loro politica economica. È in questo modo intricato che si determina la direzione del flusso di ricchezza tra le nazioni, che si decide e si porta avanti la concorrenza tra le nazioni. Facendo dipendere il denaro-credito delle nazioni dalle loro attività speculative, i „mercati”, con la loro vasta gamma di strumenti finanziari, si elevano alla funzione di capitalista collettivo reale internazionale, che fa del denaro di tutto il mondo la base di una sovrastruttura mondiale dei crediti nelle sue mani. E questo è il risultato dell’autorizzazione da parte delle nazioni capitaliste ai loro agenti finanziari di farsi carico di tutti i tipi di affari di credito su scala mondiale.
Alla fin fine ciò che ne risulta è un tasso di cambio nuovo ogni giorno. Come i mercati ci arrivino continuamente rimane una cosa oscura persino a chi ha il compito di interpretare „l’andamento dei mercati”, ma nessuno degli operatori finanziari perde la ragione di fronte alle assurdità messe in scena da loro stessi.

c) Nella totale assurdità di una speculazione sulla loro stessa attività speculativa, i cambisti si riferiscono in ultima istanza al successo degli affari internazionali e politico della nazione, per la quale aggiustano su misura i tassi di cambio.

In ogni caso i tassi di cambio stabiliti dagli speculatori come esecuzione libera di un incarico (sopra)nazionale nonché di una missione (inter)nazionale, non sono il famoso „prezzo di equilibrio”, dove domanda e offerta „di carattere solido” si dovrebbero incontrare. Essi stessi diventano argomenti ed elementi autonomi nelle decisioni d’investimento da esse stesse vengono determinati. Ma come si arriva a queste decisioni?
Per procedere in modo adeguato i cambisti devono essere al corrente di tutto ma non hanno bisogno di capire nulla, né i principi alla base della loro attività economica, né le cause per i successi nella concorrenza internazionale o per le crisi monetarie; e neanche che cosa mettono in relazione, che cosa paragonano praticamente e alla fine addirittura decidono. Avere un’idea di tutto ciò sarebbe solo un ostacolo. Ciò di cui hanno bisogno per i loro affari sono „informazioni”, o meglio indizi circa „il trend”… e cioè il loro trend, ossia i famosi „movimenti in borsa”. Da questo dipende tutto per loro: se puntano prima di altri sull’andamento del tasso di cambio che poi si impone, allora i giorni e le ore di anticipo rispetto ai loro colleghi e i centesimi che possono portargli via costituiranno il loro profitto. Sempre che naturalmente il resto della squadra si accodi e confermi tale tendenza; altrimenti vinceranno coloro che hanno speculato in modo contrario. È quindi necessario percepire gli indizi che „i mercati” seguono e questo prima che lo facciano essi stessi. E se li seguono solo perché „qualcuno” ha percepito „qualcosa”, va comunque benissimo: la cosa più importante è tale speculazione, da cui arrivano i segnali più efficaci.
Naturalmente si tratta di un circolo vizioso; cosa ben nota ai „tori” e agli „orsi” riuniti nelle borse di tutto il mondo. Totalmente sicuri di sé questi ammettono e riconoscono l’irrazionalità dei loro affari; sanno da una parte, se glielo si chiede, nominare una causa dell’andamento di ogni tasso, ma sanno anche che già un’ora dopo lo stesso andamento potrebbe essere ricollegato ad un’altra causa o che la medesima causa potrebbe causare un trend del tutto diverso. A volte scuotono la testa per il loro operato o quello dei colleghi e così facendo danno vita ad un nuovo trend. Alla fine si ritengono nella loro pazzia addirittura amanti del rischio e temerari – e ancora una volta si sbagliano di grosso.
Perché anche se nella questione circa gli indicatori per una speculazione di successo ad ogni cosa possibile immaginabile può essere attribuito un significato – i „fondamentali” dell’economia e i „dati” politici, il tutto in un gran miscuglio, le assegnazioni di crediti qua piuttosto che i fallimenti là, una proposta di legge che fallisce in un Paese importante, uno sciopero o persino la tosse del presidente: il criterio secondo il quale gli speculatori cercano indizi, considerano fattori importanti o ne trascurano del tutto degli altri è alla fine assolutamente chiaro. Rivolgono la loro attenzione a tutto ciò che abbia a che fare, anche se in modo remoto, con la buona riuscita degli affari e col potere che ha successo, cioè con la capacità politica di imporsi grazie alla ricchezza capitalistica di cui una nazione dispone e con i mezzi economici di una potenza statale che pretende il ruolo guida nella politica mondiale. Di „rischio” e „anything goes” neanche l’ombra. Proprio quegli speculatori che più di altri non si lasciano sfuggire nessun cambiamento del trend sono quelli più ansiosi e allo stesso tempo gli opportunisti del potere più incalliti – e per la stessa identica ragione sentono costantemente l’impulso di passare da un trend all’altro, per non perdere il contatto con gli ultimi cambiamenti nei rapporti di forza politico-economici, che essi stessi contribuiscono a creare.
Quali sono dunque i servizi che i cambisti offrono in cambio dei loro guadagni?
Cominciando dai lati negativi, cioè da quello che non fanno: non contribuiscono per niente alla ricchezza mondiale. Con tutti i loro affari e il loro prestigio non modificano in niente la banale verità che la ricchezza capitalistica delle nazioni è tanto grande quanto il valore della merce che si vende con un profitto, e che tutti i titoli di credito non aumentano questa ricchezza neanche un po’. Il mondo non sarebbe più povero – né di beni di consumo, né tanto meno di vera ricchezza astratta - se non esistesse più l’universo della speculazione delle divise.
Quello che però non ci sarebbe senza questa sovrastruttura – per passare ai lati positivi – sarebbe l’intero capitalismo internazionale. Gli speculatori di divise realizzano i rapporti commerciali tra le nazioni. Mettono in pratica la decisione degli Stati di affrontare la concorrenza internazionale mettendo in gioco la loro intera economia nazionale. Utilizzano il denaro degli Stati sovrani come valuta, che promette vero valore, e la mettono nelle loro transazioni alla prova, per verificare quanto essa sia in grado, rispetto alle altre, di mantenere tale promessa. In questo modo confrontano le nazioni in base al loro successo capitalistico complessivo a livello mondiale, e realizzano lo spostamento dalla concorrenza tra i capitalisti a livello mondiale alla concorrenza delle economie del capitale, degli „Standort”. Trasformano poi questa concorrenza in un confronto dei titoli di credito nazionali misurati in termini di solidità. Creano credito internazionale, e lo trasferiscono in particolare là dove credono che il corso delle cose giustificherà la loro „temerarietà”. Attenendosi alla radice della parola „credito” e cioè „credere” fanno diventare realtà l’assurda equazione „credito=fiducia”, spostano per il mondo intero la ricchezza delle nazioni nella sua forma più elevata, effimera e al tempo stesso più vincolante, quella cioè della speculazione sui debiti, e la collocano poi lì, dove secondo le relazioni imperialistiche di potere questa ricchezza appartiene. E’ proprio con le tecniche più avventurose dei loro affari che si compie il loro servizio imperialistico.
Per questa ragione il gioco non si conclude qui. Nessuno Stato sovrano, anche se avesse contribuito alla realizzazione di tale caos, si sottomette alle sue decisioni senza „riflettere” a modo suo, cioè coi mezzi della potenza sovrana. Neanche ai vincitori piace essere sottomessi alle sentenze degli avvoltoi privati del denaro. La speculazione sfida quindi i poteri statali a reagire, e non lo fa solo obiettivamente ma anche intenzionalmente – naturalmente con un’intenzione speculativa. I manager del denaro provocano i loro soci della politica ad azioni di potere sulle quali essi possono puntare. I cambisti liberi professionisti sono infatti consapevoli del fatto che sia essi stessi che i loro affari dipendono dai poteri politici, che con gli accordi tra loro danno origine al sistema finanziario nazionale nonché internazionale.
E ottengono la reazione desiderata: una reazione straordinariamente adeguata, fino ad ora. Perché altrimenti non sarebbero diventati tanto grandi, temerari e tanto decisivi.


[i] Per questa ragione gli Stati capitalisti non sopportano quando, da qualche parte nel mondo, valga un altro concetto di ricchezza. Ciò implica difatti la negazione dell’assolutezza del valore per la quale loro garantiscono.

[ii] A scanso d’equivoci: il fatto che la ricchezza vera della società capitalistica non esista in forma dei suoi beni d’uso ma nella forma astratta del diritto esclusivo di disposizione su di essi, e che questo diritto trovi la sua esistenza materiale e la sua unità di misura nel denaro, non ha niente a che fare con la materia metallica delle monete. Anche all’epoca in cui circolavano le monete d’oro e la cartamoneta rappresentava il diritto a una determinata quantità di metalli preziosi, l’assurdità della ricchezza capitalistica era – come nella moderna economia di carta – un atto del potere supremo.

[iii] Questo è il segreto dei famigerati “terms of trade”, che, quando la pazzia capitalistica aveva ancora una “alternativa reale” (parliamo qui dell’ex Unione Sovietica) e per questo doveva accettare ostilità idealistiche, erano stati definiti dagli utopisti di un mercato mondiale più umano come sinonimo di un’ingiustizia scandalosa. Il fatto che le nazioni povere debbano consegnare sempre più merci in cambio di denaro e che ne possano acquistare sempre meno dalle nazioni capitaliste con il denaro guadagnato, è tanto scandaloso quanto coerente al sistema dell’economia di mercato. Attraverso il tasso di cambio si stabilisce l’unica vera ricchezza – e cioè quella monetaria - che queste nazioni, con la loro produzione di caffè, banane o altro, creano; dal tasso di cambio queste nazioni hanno quindi la conferma inconfutabile e logica in un’economia di mercato di quanto non redditizio sia il lavoro lì sfruttato e di quanto poco valore abbiano i beni che possono esportare. D’altro canto, il fatto che con il denaro degli Stati più avanzati si possano realizzare affari capitalistici incredibilmente più redditizi, rende la loro moneta particolarmente preziosa. Il mercato mondiale non mette difatti a confronto sacchi di caffè con locomotive, tanto meno ore di lavoro da una parte con quelle da un’altra parte, con lo scopo di retribuire gli sforzi della popolazione attiva in modo equo. Ciò che viene messo a confronto sono le valute e con esse la competitività dei capitalisti, quella cioè delle loro masse di capitale, che costituiscono un’economia nazionale.

Ecco perché le cose stanno così: se gli Stati “svantaggiati” ottenessero sempre la stessa quantità di denaro per i loro prodotti, se i prezzi e i tassi di cambio, e quindi i “terms of trade” rimanessero invariati, allora le repubbliche delle banane e del caffè del terzo mondo importerebbero già da tempo i loro frutti, simbolo nazionale, dalle serre olandesi…

[iv] Per mettere in chiaro le cose: non si può obiettare, in qualità di lettori competenti di pagine economiche, che i vari tassi d’inflazione delle diverse valute si ripercuotono sul tasso di cambio, facendo sì che le monete più indebolite dall’inflazione abbiano meno potere d’acquisto anche all’estero. Questo accade solamente perché i capitalisti stranieri che sono in grado di coprire le loro spese interne a prezzi relativamente più bassi, approfittano dell’aumento di prezzi di vendita in un’altra nazione, e perché le relative bilance commerciali, che si modificano in negativo, necessitano di un “aggiustamento”.

[v] Tutti sanno, che le banche si sono ormai notevolmente semplificate le attività di scambio. Hanno difatti a che fare con sempre meno valute utilizzate nel commercio internazionale. Malgrado ciò, le distinzioni qui spiegate, e fatte praticamente dal mondo degli affari bancari, non sono inutili. Le banche hanno di fatto reagito a queste distinzioni proprio con l’eliminazione dal loro assortimento di quelle divise che compromettono la compravendita di valute con rischi e problemi.

[vi] Anche le operazioni di credito interne vengono svolte dalle banche con il denaro della nazione. Questo è il fondamento su cui il sistema bancario basa il credito nazionale. Nel tasso d’interesse le banche calcolano il prezzo per il denaro creditizio nazionale che esse creano. La stessa cosa accade nel commercio con l’estero: ciò che conta per le banche sono le oscillazioni di valore della valuta nazionale rispetto alle altre; differenze che, misurate in valuta estera, esse possono sfruttare per i loro guadagni. Negli affari interni così come all’estero quest’unità di misura alquanto particolare, il prezzo della moneta nazionale, costituisce il mezzo per gli affari del capitale finanziario.

[vii] Le conseguenze che ciò comporta per gli Stati verranno affrontate nel prossimo capitolo (ancora in fase di traduzione).