*
e) Il risultato inevitabile dello
scambio internazionale di monete è l’insolvenza per gli Stati
che ne escono
perdenti. Nell’interesse di un continuo arricchimento nei loro
confronti, la
comunità internazionale degli Stati concorda di considerare i
loro debiti come
ricchezza, una ricchezza garantita tramite il pagamento di interessi a
cui
vengono obbligati.
f) L’affidabilità di uno
Stato in
qualità di creditore diventa il criterio decisivo per il
confronto delle valute
e la facoltà di decidere su di essa è stata assegnata ai
cambisti
internazionali.
a) Il settore bancario,
occupandosi dei bisogni di scambio di importatori ed esportatori,
arriva così a
giudicare la qualità delle diverse valute. Questo giudizio
sommario è espresso
dal tasso di cambio.
b) I cambisti speculano
indipendentemente
dai bisogni di scambio dei loro clienti. La loro ricerca di
solidità si
riflette nella volatilità dei tassi di cambio.
c) Nella totale assurdità
di una
speculazione sulla loro stessa attività speculativa, i cambisti
si riferiscono
in ultima istanza al successo degli affari internazionali e politico
della
nazione, per la quale aggiustano su misura i tassi di cambio.
[i] Per questa ragione gli Stati capitalisti
non sopportano quando, da qualche parte nel mondo, valga un altro
concetto di
ricchezza. Ciò implica difatti la negazione dell’assolutezza del
valore per la
quale loro garantiscono.
[ii] A scanso d’equivoci: il fatto che la
ricchezza vera della società capitalistica non esista in forma
dei suoi beni
d’uso ma nella forma astratta del diritto esclusivo di disposizione su
di essi,
e che questo diritto trovi la sua esistenza materiale e la sua
unità di misura
nel denaro, non ha niente a che fare con la materia metallica delle
monete.
Anche all’epoca in cui circolavano le monete d’oro e la cartamoneta
rappresentava il diritto a una determinata quantità di metalli
preziosi, l’assurdità
della ricchezza capitalistica era – come nella moderna economia di
carta – un
atto del potere supremo.
[iii] Questo è il segreto dei famigerati “terms
of trade”, che, quando la pazzia capitalistica aveva ancora una
“alternativa
reale” (parliamo qui dell’ex Unione Sovietica) e per questo doveva
accettare
ostilità idealistiche, erano stati definiti dagli utopisti di un
mercato mondiale
più umano come sinonimo di un’ingiustizia scandalosa. Il fatto
che le nazioni
povere debbano consegnare sempre più merci in cambio di denaro e
che ne possano
acquistare sempre meno dalle nazioni capitaliste con il denaro
guadagnato, è
tanto scandaloso quanto coerente al sistema dell’economia di mercato.
Attraverso il tasso di cambio si stabilisce l’unica vera ricchezza – e
cioè
quella monetaria - che queste nazioni, con la loro produzione di
caffè, banane
o altro, creano; dal tasso di cambio queste nazioni hanno quindi la
conferma
inconfutabile e logica in un’economia di mercato di quanto non
redditizio sia
il lavoro lì sfruttato e di quanto poco valore abbiano i beni
che possono
esportare. D’altro canto, il fatto che con il denaro degli Stati
più avanzati
si possano realizzare affari capitalistici incredibilmente più
redditizi, rende
la loro moneta particolarmente preziosa. Il mercato mondiale non mette
difatti
a confronto sacchi di caffè con locomotive, tanto meno ore di
lavoro da una
parte con quelle da un’altra parte, con lo scopo di retribuire gli
sforzi della
popolazione attiva in modo equo. Ciò che viene messo a confronto
sono le valute
e con esse la competitività dei capitalisti, quella cioè
delle loro masse di
capitale, che costituiscono un’economia nazionale.
Ecco perché le
cose stanno così: se gli Stati “svantaggiati” ottenessero sempre
la stessa
quantità di denaro per i loro prodotti, se i prezzi e i tassi di
cambio, e
quindi i “terms of trade” rimanessero invariati, allora le repubbliche
delle banane
e del caffè del terzo mondo importerebbero già da tempo i
loro frutti, simbolo
nazionale, dalle serre olandesi…
[iv] Per mettere in chiaro le cose: non si può
obiettare, in qualità di lettori competenti di pagine
economiche, che i vari
tassi d’inflazione delle diverse valute si ripercuotono sul tasso di
cambio,
facendo sì che le monete più indebolite dall’inflazione
abbiano meno potere
d’acquisto anche all’estero. Questo accade solamente perché i
capitalisti
stranieri che sono in grado di coprire le loro spese interne a prezzi
relativamente più bassi, approfittano dell’aumento di prezzi di
vendita in
un’altra nazione, e perché le relative bilance commerciali, che
si modificano
in negativo, necessitano di un “aggiustamento”.
[v] Tutti sanno, che le banche si sono ormai
notevolmente semplificate le attività di scambio. Hanno difatti
a che fare con
sempre meno valute utilizzate nel commercio internazionale. Malgrado
ciò, le
distinzioni qui spiegate, e fatte praticamente dal mondo degli affari
bancari,
non sono inutili. Le banche hanno di fatto reagito a queste distinzioni
proprio
con l’eliminazione dal loro assortimento di quelle divise che
compromettono la
compravendita di valute con rischi e problemi.
[vi] Anche le operazioni di credito interne
vengono svolte dalle banche con il denaro della nazione. Questo
è il fondamento
su cui il sistema bancario basa il credito nazionale. Nel tasso
d’interesse le
banche calcolano il prezzo per il denaro creditizio nazionale che esse
creano.
La stessa cosa accade nel commercio con l’estero: ciò che conta
per le banche
sono le oscillazioni di valore della valuta nazionale rispetto alle
altre;
differenze che, misurate in valuta estera, esse possono sfruttare per i
loro
guadagni. Negli affari interni così come all’estero
quest’unità di misura
alquanto particolare, il prezzo della moneta nazionale, costituisce il
mezzo
per gli affari del capitale finanziario.
[vii] Le conseguenze che ciò comporta per gli
Stati verranno affrontate nel prossimo capitolo (ancora in fase di
traduzione).