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Rivista Politica Trimestrale

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Lotta continua nello Stato italiano in crisi

Il progresso del movimento sindacale nei tempi della lotta per il posto di lavoro

Milioni di posti di lavoro persi, 40 % di disoccupazione giovanile, ditte una volta modello del marchio made in Italy ridotte a rifornitori di società tedesche, piccole industrie con manodopera a basso costo nelle mani dei cinesi, lavoro in giornata e mercato nero del lavoro come normalità dell’economia, deindustrializzazione invece di crescita economica, lo Stato risparmia per la credibilità del regime del denaro/euro, con cui lo Stato non ci guadagna più – questa è dunque la situazione nel bel paese, nello spazio economico della “azienda Italia”. Questo è il bilancio, per una delle nazioni fondatrici dell’Europa, di decenni di concorrenza sul mercato interno comunitario e su quello mondiale; un bilancio che, dopo 10 anni di crisi e di rovinosa concorrenza ad eliminazione, ha portato il paese agli ultimi posti della classifica economica (dei paesi industrializzati).

I lavoratori sono più che mai costretti a sottoporsi al verdetto del capitale che solo quello che porta profitto può essere impiegato; lo Stato si preoccupa di questo tipo di utilizzazione efficiente della forza lavoro, perché è anche la sua fonte di ricchezza e base del potere; il capitale, che durante la crisi riesce ad affermarsi nella concorrenza, trae dal suo successo la capacità e i mezzi per permettersi nuove radicali libertà nel campo dei contratti su lavoro e salario, e di imporre di seguito nuove condizioni di concorrenza.

I. Nuovi metodi del capitale nel mondo del lavoro e del salario

1. Il “Progetto” Fiat

Fiat, ancora 25 anni fa con un’occupazione di 125 000 lavoratori la spina dorsale dell’industria italiana, occupa al giorno d’oggi nei suoi stabilimenti di montaggio soltanto 25 000 lavoratori, di cui una parte è da anni in cassa integrazione. Nel 2010 l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne si rivolge a tutti gli organi interessati dell’ “azienda Italia” e presenta al paese d’origine del suo impero ormai globalizzato un’offerta, di cui è sicuro che nessuno può rifiutarla: il gruppo Fiat-Chrysler investe a lungo termine per la prevista offensiva sul mercato mondiale la somma di ben 20 miliardi di Euro negli stabilimenti italiani, ma solo se la richiesta di riduzione del salario e il ridimensionamento di tutti i rapporti di lavoro vengono accettati senza se e senza ma. Il modello della sua concezione di una nuova Fabbrica Italia sarà lo stabilimento di Pomigliano, nel quale verranno applicati i nuovi costumi del mercato del lavoro, esemplari per tutti gli stabilimenti della Fiat. Altrimenti la Fiat abbandonerebbe la produzione italiana, trasferendosi completamente in Serbia, Polonia o altri paesi dove la manodopera costa poco. Un espressione chiara del ricatto previsto: O si o no!

Questa Fabbrica Italia combina gli investimenti di capitale in tecnologie moderne, che grazie alla digitalizzazione e l’impiego di catene di montaggio robotizzate ottengono dalle prestazioni lavorative massimi valori di produttività, con un grado di concentrazione e di estensione della giornata lavorativa che senza la rispettiva buona porzione di etica di lavoro non si otterrebbe.[ 1 ]

Il primo dettato consiste nell’organizzazione di un sistema flessibile di lavoro a turni di modo che la produzione possa continuare 24 ore su 24 e 6 giorni su 7. Per chiudere tutti i pori della giornata lavorativa ogni turno di 8 ore avrà una pausa mensa di 30 minuti, solo che questa pausa viene spostata a fine turno, quindi praticamente cancellata (difatti la mezzora di mensa può essere anche “sacrificata” per recuperare le perdite di produzione). Le altre pause fissate dai contratti accorciate e sopratutto spartite fra il collettivo del turno (il nuovo organo unitario dei rappresentanti sindacali nelle singole unità produttive, esclusa la Fiom-Cgil, e Associazione quadri e capi Fiat, in tal modo da non fermare in alcun caso la produzione.[ 2 ]

Per poter espandere la produzione a seconda dei bisogni, gli straordinari aumentano, oltre alle 40 ore già previste dal contratto nazionale, di ben 80 ore all’anno, non negoziabili, per ogni lavoratore. Nello stabilimento di Melfi, dove la Fiat applica i modelli standard nati negli accordi di Pomigliano, gli straordinari non esistono quasi più, perché tutti i fine-settimana sono completamente integrati nei turni di lavoro. Così la Fiat può vantarsi del fatto che per la prima volta in Europa si sono raggiunte 160 delle possibili 168 ore lavorative alla settimana (le otto ore delle sante domeniche servono necessariamente, naturalmente e in modo sacro per i turni della manutenzione degli impianti), cosicché il tasso di sfruttamento degli impianti supera addirittura i concorrenti in Germania e Francia.

Questo estremo tasso di sfruttamento è accompagnato da un rigoroso quadro di regolamentazione, che pretende dagli operai un’assoluta disciplina sul lavoro, che inizia con la presenza: la società si riserva di non retribuire, come sarebbe tenuta a fare, i primi tre giorni di malattia, quando ritiene che siano casi di “assenteismo anomalo”, il che si riconosce dal fatto che le assenze si ripetono sovente. In generale vale:

“Il venir meno, da parte del singolo lavoratore, per qualsiasi motivo, anche ad una sola delle clausole previste nell’accordo, costituisce un’infrazione punibile con provvedimenti disciplinari e licenziamenti e comporta il venir meno dell’efficacia nei suoi confronti delle altre clausole.” (ilpost.it, 23.6.10)[ 3 ]

Il salario si definisce alla Fiat come variabile del successo aziendale e a lui si orienta: nel 2015 viene fissato per i prossimi 4 anni un salario base, congelato al livello del 2011. Le indennità saranno connesse al conseguimento degli obbiettivi prefissati (grado di efficienza annuale dello stabilimento e redditività del settore: Nei primi tre anni il premio mensile sarà al massimo di 120 € e crescerà nell’ultimo anno a 230 €. Questo significa per i lavoratori sia un salario complessivo più basso sia la fine di un salario calcolabile e l’inizio di un calcolo probabilistico dei risultati aziendali, sui quali il lavoratore può influire poco.

Quando l’amministratore della società loda tutti questi progressi in materia di deplorevoli condizioni lavorative sottolineando che il tutto è “non negoziabile”, quando insiste che questo accordo “non è un contratto, ma un progetto”, lo intende testualmente: tanto più rigorosa è la nuova offensiva nel campo della concorrenza mondiale, tanto più intransigente è l’applicazione nella realtà di questo modello. I capi aziendali non intendono per niente negoziare, ma fissano nuove regole e “fatti”, li lasciano firmare dai sindacati a loro più favorevoli e alla fine organizzano un referendum aziendale in cui una evidente maggioranza dei dipendenti conferma il ricatto. L’unico sindacato che non firma l’accordo viene sbattuto fuori dalla fabbrica, anche se la società con questo provvedimento è chiaramente in contrasto con la lettera e lo spirito della legge. Il fatto che un’iniziativa del genere non trovi molti interlocutori anche nella Confindustria non disturba la Fiat: al contrario, la Fiat esce dalla Confindustria, l’organizzazione degli industriali, perché non intende in futuro attenersi a qualsiasi accordo tra la federazione e il sindacato.

Anche se alla fine di queste manovre di ricatto il tutto viene paragrafato in un’accordo, questo non è per niente risultato di una negoziazione, ma bensì la dimostrazione aperta dell’indifferenza, sfacciataggine e della totale mancanza di rispetto nei confronti del sindacato, una volta e ancora adesso per legge il partner contrattuale riconosciuto, e nei confronti di tutte le convenzioni sociali e accordi collettivi in vigore. Questa libertà praticata dal capitale nei confronti di tutte le procedure e disposizioni finora vigenti riguardanti la gestione del fattore lavoro, ricorda a quei modi di sfruttamento tipici dei latifondisti di quei tempi meno civilizzati del capitalismo, che come padroni comunicavano ai loro dipendenti come stanno le cose: i lavoratori, specialmente nel Mezzogiorno, dovrebbero essere lieti e riconoscenti per il fatto di avere perlomeno un lavoro. Ed è questo atteggiamento verso il lavoro, come servizio e funzione, che rappresenta la condizione essenziale per renderlo redditizio in una crisi economica.[ 4 ]

2. La classe capitalista sente i segnali

Quando questo datore di lavoro, che si ambisce al ruolo di gestore di tutte le condizioni di vita e di lavoro, esce dalla sua associazione industriale, questo non significa affatto che il suo modello economico desti stupore e perplessità da parte degli altri industriali del suo paese. Al contrario. La Fabbrica Italia merita la massima attenzione, specialmente in tempi di crisi, sotto diversi aspetti: da una parte perché il suo ”progetto-faro” dell’industria nazionale propone e radicalizza un cambiamento fondamentale di marcia, dall’altra parte perché il modello viene inteso come uno strumento per incentivare la nuova svolta. In fin dei conti i singoli imprenditori, con l’aiuto delle loro associazioni, hanno raggiunto negli ultimi anni con successo una riduzione dei livelli salariali, pregiudicando tutte le forme di contrattazione collettiva attualmente esistenti. Del contratto nazionale non è rimasto molto. Al suo posto sono subentrati sempre più contratti aziendali che rendono il personale ricattabile e nel vero senso della parola ‘dipendente’ dal potere della proprietà privata: il trasferimento della gran parte dei contenuti dei contratti dal primo (nazionale) al secondo (aziendale) livello è difatti accompagnato, per niente casualmente, da una riduzione dei salari e da una massima flessibilità dell’orario di lavoro. Il risultato è una riduzione del salario nazionale – come alla Fiat – ad un livello base ridotto all’incirca alla metà del totale della retribuzione e che può aumentare, da impresa ad impresa, tramite premi, gratifiche e altre indennità. Il fatto che in un periodo di crisi queste componenti del salario sono le prime e, dal punto di vista del capitale, ovviamente gli elementi prediletti che possono venir ridotti o addirittura annullati a seconda delle necessità aziendali, non rappresenta nient’altro che l’applicazione pratica del principio che il salario effettivo dipende e si riferisce solamente al successo economico dell’impresa. Ciò vale all’inizio per variazioni verso l’alto, nella crisi, su base dei risultati negativi reali o presupposti, sempre più per progressivi ribassi del salario e dei suoi elementi costitutivi.[ 5 ]

Il capitale si approfitta del fatto di essersi liberato, in seguito alla gestione della crisi, di diversi elementi del salario per modificare tutto il resto del sistema di contrattazione: una volta c’era, come contenuto sostanziale del contratto nazionale, l’intesa o la convenzione di adattare il potere d’acquisto del salario tenendo conto degli effetti dell’inflazione . Per quanto bassi fossero gli aumenti del salario nei contratti nazionali dai tempi dell’abolizione della scala mobile il mantenimento del potere d’acquisto restò comunque un titolo importante del sindacato nelle vertenze salariali. E proprio questo residuo, alquanto modesto ma ancora esistente di una istituzionalizzata compensazione del salario, è preso di mira da tutto il fronte delle organizzazioni imprenditoriali, dalla Confindustria alla Federmeccanica. Sembra un cinico necrologio per la scala mobile[ 6 ] quando il capitale (chimico e metallurgico) pretende dal sindacato il rimborso di componenti del salario perché al giorno d’oggi c’è una deflazione. Se l’argomento di una volta affermava che i prezzi alti delle merci non giustificano un’aumento del salario, essendo al contrario gli aumenti dei salari la causa vera e propria dell’inflazione e questo rappresentava la ragione e la giustificazione per l'abolizione della scala mobile, al giorno d’oggi gli imprenditori si lamentano di fronte all’attuale deflazione e naturalmente non si preoccupano del fatto che la deflazione potrebbe aver a che fare con i tagli salariali. Al contrario. Se loro non ottengono sul mercato i loro prezzi, allora i salari devono di conseguenza venir ridotti per compensare le perdite: deflazione giustifica riduzione dei salari!

La Fiat dimostra in modo esemplare che la retribuzione del lavoro dipende interamente dagli interessi concorrenziali del rispettivo capitale. Per il capitale il tasso salariale ridotto ad un livello minimo non rappresenta un legame o un impegno a cui si è per contratto vincolati, bensì la libertà di abbinare il salario al profitto e all’ interesse dell’impresa e di ignorare praticamente l’interesse dei lavoratori di trarre dal salario mezzi sufficienti per il loro sostentamento.

Il capitale tratta nello stesso modo i rispettivi rappresentanti aziendali: quando le contrattazioni sindacali a livello dell’impresa o dello stabilimento sono previsti soltanto ogni tre o quattro anni e quindi offrono al capitale la possibilità e la libertà di modificare, a seconda delle sue necessità, il rapporto tra le prestazioni lavorative e la rispettiva retribuzione quando gli aumenti salariali riguardano solo il 5% dei lavoratori, de facto solo quelli dei dipendenti nel settore a bassa retribuzione e anche in questo caso possono essere interpretati a proprio piacimento con il pretesto di “ difficoltà aziendali”, quando tutto è così, il capitale si è avvicinato di gran passo all’ideale che il salario può essere stabilito nel migliore dei modi anche senza partecipazione sindacale. Là dove gli imprenditori, specialmente in periodi di crisi, si dimostrano particolarmente creativi nell’invenzione e rispettiva messa in atto di un mercato del lavoro precario - che non garantisce nemmeno la sopravvivenza - continua a crescere il loro potere di ricatto che sfrutta la concorrenza tra i lavoratori e indebolisce l’opposizione sindacale.

II. Lo Stato italiano conferma, aggiorna e completa la lotta di classe dei capitalisti

“Io sono del tutto soddisfatto e entusiasta dei progetti di Sergio Marchionne” (“Il Cavalliere” Renzi)

“Renzi deve continuare, non si deve piegarsi alle intimazioni ...; mi piace perché è un’artefice.” (Il capo della Fiat Marchionne)

Il capitale ribalta radicalmente le condizioni retributive e lavorative e tutti i contratti sociali esistenti con i suoi dipendenti. Lo Stato, che a suo scopo e di tutta volontà ha istituito questi rapporti e ne ha garantito l’esistenza con tutta la sua forza giuridica, si mostra incredibilmente favorevole nei confronti di questa rottamazione offensiva di tutte le convenzioni delle relazioni industriali (relazioni fra datori di lavoro e dipendenti) vigenti: per lo Stato italiano in tutti questi anni di crisi la situazione si inasprisce e si concentra sul risanamento del bilancio, imposto dalla comunità europea che lo costringe a risparmiare su tutto e ovunque, perché la mancata crescita nazionale non gli procura le risorse e gli strumenti necessari al rilancio dell’economia, mentre nello stesso tempo in un paese, in misura sempre maggiore, “deindustrializzato” il triangolo funzionale tra Stato-Capitale-Lavoro si sgretola.

Naturalmente il governo, che intende essere riconosciuto come potere esecutivo di una grande potenza europea, una potenza leader, ritiene importante insistere sul fatto che il cosiddetto consolidamento, cioè il risanamento del bilancio, è un proposito di iniziativa propria - non certo un Diktat di Bruxelles o della Merkel. Lo Stato italiano insiste sull’interpretazione che in tal modo la crescita industriale e il lavoro redditizio saranno la fonte del suo potere.

Il governo si profila così come un governo che ha la volontà e capacità di riformarsi, affermando in un’opera di autocritica che lo Stato nella sua forma attuale ostacola come una barriera la crescita industriale. Questa affermazione riguarda in primo luogo le strutture di potere e il loro costo: quando i fondi statali non producono una crescita industriale, si deduce che lo Stato sia di per se troppo caro e che solo la diminuzione dei suoi costi possa fungere da leva per promuovere lo sviluppo.

1. Lo Stato risparmia

–  sui costi e a costo dei suoi dipendenti

Come datore di lavoro decide quindi di congelare gli stipendi del settore pubblico e si rifiuta da parte sua di rinnovare i contratti salariali: per i dipendenti di questo settore da sette anni e mezzo non si tengono più negoziati salariali, il livello dei salari viene definito per decreto. In qualche regione non si pagano salari da mesi. Inoltre lo Stato riduce le pensioni, in parte anche tramite l’introduzione di una nuova flessibilità - flessibilità in uscita - di calcolo della pensione, dei requisiti di accesso ed dell’età pensionabile (Fn), già aumentata dal predecessore di Renzi.[ 7 ]

La procedura della Fiat contro il diagnosticato assenteismo anomalo e contro l'inefficienza delle prestazioni lavorative personali convince lo Stato italiano che come datore di lavoro promuove una campagna pubblica a favore del miglioramento dell’etica del lavoro e contro il dolce far niente dei suoi dipendenti (i fannulloni). La riforma dovrebbe di conseguenza portare nelle amministrazioni il nuovo vento che soffia nell’industria: remunerazione legata ai risultati individuali a seconda di un sistema di premi, nessun aumento degli stipendi in base all’anzianità, assunzioni basate su criteri come mobilità e flessibilità, licenziamenti e un ringiovanimento radicale dell’organico pubblico tenendo conto nelle nuove assunzioni di competenze informatiche, che offrono al governo la possibilità di risparmio sul costo del lavoro.[ 8 ]

–  ristrutturazione dello Stato sociale

Lo Stato sociale è costretto dalla mancata utilizzazione produttiva di notevoli parti del suo popolo ad una rettifica. Il fatto che negli anni della crisi in Italia la povertà è aumentata di più che in altri paesi europei è ben noto.[ 9 ] Partendo da questo lo Stato sociale dovrebbe aumentare i suoi impegni, ma invece è tenuto a risparmiare. Il sistema di ammortizzazione sociale di nome Cassa integrazione, istituita una volta per mantenere a galla i lavoratori colpiti da periodi temporali di riduzione del tempo di lavoro, trasformata negli anni 80 di lotta sindacale in uno strumento di assistenza a lungo termine per disoccupati, viene riformata: prima di tutto la durata del pagamento del sussidio viene limitata ad un tetto massimo di 24 mesi e in secondo luogo può essere utilizzata solo da aziende in fase di crisi o ristrutturazione e non per lavoratori licenziati da aziende in fallimento.

Al suo posto e al posto di altre indennità cancellate nasce un nuovo ammortizzatore sociale, un'assicurazione di disoccupazione con tanto di nuova agenzia del lavoro. Questa assicurazione rappresenta il riconoscimento ufficiale che migliaia di lavoratori saranno in futuro senza lavoro non solo per ragioni di una temporanea fase di crisi, ma per ragioni cosiddette strutturali e a lungo termine, per cui lo Stato, idealizzando la possibilità di un loro futuro impiego, cerca di mantenerli in grado di reinserirsi sul mercato del lavoro in caso di richiesta da parte degli imprenditori. Questa nuova definizione della situazione costa naturalmente soldi: il sussidio per ex-lavoratori, considerati inutilizzabili dal capitale, deve quindi rimanere entro limiti ‘ragionevoli’. I disoccupati devono essere in maniera assoluta a disposizione di un mercato del lavoro, che non ha niente da offrire: l’assicurazione di disoccupazione (Naspi)[ 10 ] paga in primo luogo meno che la cassa integrazione; il sussidio si basa sui contributi versati e la sua durata è limitata in rapporto all’occupazione precedente; la transizione in un’assistenza sociale è accompagnata da rispettivi incentivi al lavoro con tutte le intimidazioni necessarie a questo scopo.

In questa categoria rientrano subito e fin dall’inizio un milione di giovani in gran parte senza formazione professionale, che non trovano lavoro e non hanno alcuna prospettiva di trovarlo. E da qui il grandioso proposito del leader politico Renzi di aiutare la gioventù della sua nazione: un elemosina annuale di ben 500,- Euro cadauno come incentivo alla cultura per invogliare i giovani ad andare nei musei, a teatro o semplicemente comprare un libro di modo che anche se senza lavoro non trascurino i valori del mondo e della cultura occidentale. Per il resto lo Stato punta sulla famiglia - sicuramente uno dei valori più fondamentali in Italia – e sui diritti a prestazioni statali da lei accumulati, compresi i relativi patrimoni privati: pensionati e familiari con un qualsiasi impiego/lavoro sono costretti a provvedere alla sopravvivenza di quelli senza reddito.[ 11 ]

2. La politica mette in moto una macchina per creare posti di lavoro

L’altra parte dell’autocritica del governo, la sua volontà riformatrice, consiste nel voler liberare ad ogni costo il capitale da tutte quelle barriere che, sotto forma di norme e disposizioni di legge ereditate dal passato, impediscono agli artefici dell’economia di farsi i loro affari:

Quando Renzi parla di un’“antagonismo di classe”, non intende certo il rapporto inconciliabile tra capitale e lavoro, da lui gestito, ma bensì un’antagonismo di tutt’altro tipo, cioè quello tra i titolari di un posto di lavoro “privilegiati” da una parte e i precari “senza diritti” dall’altra parte. Renzi trasforma il posto di lavoro, l’unica usuale fonte di reddito per un lavoratore, in un privilegio da cui deriva appunto la discriminazione di tutti quelli che non ne posseggono uno.

In questo atteggiamento ipocrita Renzi fa leva sulla situazione disastrosa del suo popolo e con spirito autocritico trova nell’attuale legislazione nazionale sul lavoro e nelle rispettive contrattazioni tra capitale e sindacato i veri colpevoli e i veri ostacoli all’occupazione. Le norme vigenti del diritto del lavoro devono essere ridisegnate. Le barriere allo sfruttamento, una volta create e tutelate dalle leggi statali, sono nel frattempo i principali ostacoli burocratici che si frappongono alla realizzazione di un’economia efficiente. Innumerevoli forme di lavoro a basso costo, che nel frattempo sono una normalità, vengono ufficialmente riconosciute e i metodi di libera disponibilità su tempo e trattamento dei lavoratori politicamente confermati.

Dato che lo Stato si accorge che l’ampio uso del lavoro precario pregiudica anche il suo bilancio – visto che il lavoro precario o illegale, non soggetto a tasse, imposte e contributi di previdenza sociale, non è certo una fonte di arricchimento statale – il governo decreta con il Jobs Act i metodi per far fronte a questa contraddizione.

L’apposita legge ridefinisce una notevole quantità di contratti a tempo determinato, che il capitale offre di fianco ai posti di lavoro indeterminati. Sotto i titoli “semplificazione”, “armonizzazione” e “deregolazione” avviene la magica riconciliazione renziana “dell’antagonismo di classe” tra i rapporti di lavoro cosiddetti sicuri e quelli precari, rendendo gli ultimi “più sicuri” e quelli finora sicuri insicuri: i contratti a tempo indeterminato, chiamati “contratti a tutela crescente“ vengono semplificati allungando ad un periodo (di prova) di tre anni i tempi in cui le tutele contro il licenziamento non entrano in vigore. La “tutela” consiste nel fatto che in caso di licenziamento per ragioni economiche il dipendente avrà diritto solo ad un risarcimento in denaro, proporzionale agli anni di carriera, e non al reintegro nell’azienda. La durata massima dei contratti a tempo delimitato è fissata a 36 mesi, contando sull’ideale di un’assunzione successiva a tempo indeterminato.

Le forme estremamente flessibili dell’impiego della forza lavoro[ 12 ] verranno, alla luce degli aspetti fiscali, abolite o ridotte, dando possibilità di adottare misure contro il “falso lavoro autonomo” e il mercato nero. Dall’altra parte lo Stato legalizza le altre forme di rapporti precari fissandone solo i termini. Per i casi dilaganti di contratti a giornata o a retribuzioni orarie gli ostacoli amministrativi, inventati dal Jobs Act per poterli fiscalizzare, consistono nell’obbligo dei datori di lavoro di comperare per i lavoratori a giornata buoni-lavoro – voucher – che contengono in parte contributi sociali. Con questa logica il governo segue l’ideale del controllo sui rapporti di lavoro esistenti, anche se nel frattempo non è per nessuno un segreto che con quei vouchers gli imprenditori- creativi come sempre sono – affittano per un paio di ore legalmente controllabili lavoratori a basso prezzo, che per il resto della giornata lavorano in nero.[ 13 ] Che di quei ridicoli contributi sociali nessuno potrà mai ricavare un sussidio (di disoccupazione o pensionistico), lo sanno tutti, Renzi compreso.

Agevolando i licenziamenti lo Stato intende incoraggiare gli imprenditori a nuovi contratti a tempo indeterminato che – come si è visto – già all’inizio grazie alle nuove norme non sono per niente sicuri. Anche se questa liberalizzazione dei rapporti di lavoro non è per niente una macchina per creare posti di lavoro né un’uscita dalla crisi, nonostante questa palese realtà, il principio del hire & fire che lo Stato sta organizzando non ha per lui alcuna alternativa.

In tal senso il governo Renzi provvede alla modifica del leggendario articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che significa la sua abolizione. L’articolo aveva posto alcuni ostacoli ai licenziamenti arbitrari e, anche se non ha avuto una significativa rilevanza nella realtà aziendale, è sempre stato per gli imprenditori l’incarnazione dei metodi socialisti contro l’economia di libero mercato e i loro affari.

L’opinione pubblica e tutti gli interessati hanno capito bene che la macellazione della vacca sacra dei sindacati era una dimostrazione politica nei loro confronti che trova l’appoggio – questo l’ulteriore calcolo - di tutti gli amici del libero mercato: di fronte all’opinione pubblica tedesco-europea il governo italiano dimostra in quel modo la sua Sovranità politica e la sua capacità di imporsi, assecondando le regole comunitarie sul bilancio. Rispetto all’incapacità di Berlusconi in questo campo, Renzi, eliminando un bastione simbolico del sindacato, intende precisare che nessun sindacato potrà restringere la sua libertà di azione. Per lui il sindacato è una lobby di interessi obsoleti e dannosi, che amministra solo l’antagonismo di classe, che Renzi vuole rottamare: il sindacato rappresenta solo i lavoratori “privilegiati” e danneggia una gran parte del popolo, che ha soltanto bisogno di un semplice lavoro a qualsiasi costo.

3. Antisindacalità

Da questo punto di vista il socialdemocratico a capo del governo ignora con fermezza le obiezioni sindacali contro lo smantellamento delle posizioni sociali conquistate negli anni passati. Il sindacato già ridotto dai tempi del dialogo sociale tra capitale e lavoro – un’invenzione del governo Berlusconi[ 14 ] - ad un ruolo o di costruttivo coautore di tale politica o di istituzione irrilevante, non viene più preso sul serio come interlocutore nei primi due anni del governo Renzi, che rifiuta decisamente ogni dialogo con un sindacato nonostante la sua offensiva disponibilità ad esserlo. Anzi, Renzi mostra il suo disprezzo nei confronti di un sindacato che crede ancora di avere nel suo partito un sostenitore dei diritti sindacali: “Voi scioperate, io creo posti di lavoro”. La dimostrazione pratica del suo disprezzo del sindacato è palese nel confronto del Jobs Act che entra in vigore contro le manifestazioni sindacali e contro il gruppo minoritario del suo stesso Partito Democratico: pattuendo con la destra parlamentare (patto del Nazareno con Forza Italia) Renzi fa passare il decreto, fregandosene del sindacato e dimostrando la sovranità del governo di fronte a qualsiasi opposizione.[ 15 ] Nei cassetti dei ministeri sono già pronti – nell’ambito dell’armonizzazione delle normative in Europa – disegni di legge che intendono sottrarre disposizioni normative (contrattazione collettiva, diritto di sciopero e contratti sull’organizzazione delle imprese) dal settore del diritto contrattuale privato (tra imprenditori e sindacati). Di questo modo sia il potere politico che il capitale intendono emanciparsi dal diritto di opposizione e di ricorso dei rappresentanti sindacali, facendo sì che le procedure di accordi rilevanti sul mercato del lavoro non dipendano da rapporti di forza esistenti tra le parti che stipulano i contratti.

Chiarimenti pratici di come il potere politico intende affrontare le posizioni sindacali dissidenti: gli ultimi eventi di sabotaggio da parte dei sindacati di base del settore trasporti vengono confrontati con un possibile intervento dell’esercito; lo sciopero previsto dai controllori del traffico aereo viene cancellato dal sindacato dopo l’annuncio della proibizione dello sciopero da parte del governo che invoca “la responsabilità per la vita pubblica”.

L’ostilità espressa con vigore dal capo del governo contro i sindacati – antisindacalità – contiene un certo momento di ironia, per niente specificatamente italiana: è proprio il partito di sinistra reggente che prende il ruolo di rimuovere ed eliminare gli ultimi residui delle conquiste sindacali contro cui un convinto fautore e sostenitore della libertà di sfruttamento capitalista di nome Berlusconi ha lottato durante tutta la sua carriera politica e che appartengono per l’autoproclamato “rottamatore” Renzi ai “rifiuti storici” che intende smantellare.

III. La reazione del sindacato all’indebolimento delle sue posizioni

Quando il capitale aggrava le sue insolenze contro i lavoratori; quando non accetta alcuna opposizione da parte del contropotere operaio; quando in questo contesto riceve un notevole sostegno e copertura da parte del potere politico che non è disposto a tutelare i diritti dei lavoratori, ma al contrario li vuole delimitare rifiutandosi di contrattare con quei rappresentanti che non intendono sottomettersi; stando così le cose in un paese che una volta godeva di una cattiva reputazione a causa di continui scioperi e agitazioni sindacali, allora lo Stato e il Capitale non hanno bisogno di preoccuparsi di una resistenza della classe operaia organizzata. Questa lotta di classe dall’alto è rivolta – che altro potrebbe essere – contro la classe operaia, ma senza una sua opposizione.

Questo attacco dello Stato e del capitale contro le istituzioni sindacali è ancor più spudorato e rigoroso in quanto classifica tutti gli strumenti di ricorso e di lotta istituzionalizzati nell’organizzazione sindacale come il fattore elementare di destabilizzazione del nuovo equilibrio sociale. Anche se le organizzazioni sindacali già da tempo non usano più il loro contropotere, che – forse appunto per questo – adesso viene messo sostanzialmente in discussione. Lotte salariali, decenni fa una pratica corrente, non esistono più. Al contrario, il capitale si trova di fronte un sindacato che sembra aver capito qual’è la situazione in uno Stato in crisi; un sindacato che si adatta al fatto che il lavoro diventa sempre più precario, i lavoratori sempre più ricattabili e lui stesso, il loro rappresentante, marginalizzato e completamente ignorato. Il tutto come se questo progresso fosse una situazione irreversibile di cui si deve tener conto, a cui bisogna adattarsi, cercando con assoluto realismo di fare del suo meglio. Perlomeno le due più grandi associazioni sindacali, la Cisl (Confederazione italiana sindacati lavoratori) e la Uil (Unione italiana del Lavoro) sono ben convinte che la necessità di un’opposizione al potere del capitale e del suo diktat sui rapporti del lavoro è al giorno d’oggi del tutto obsoleta. Nonostante questo non gli viene però l’idea, del tutto coerente, di dichiararsi superflue e di sciogliere le loro organizzazioni.

1. Dallo smantellamento del sindacato ad una strategia costruttiva

Né la Cisl né la Uil hannopreso atto che la decentralizzazione delle contrattazioni collettive punta ad una riduzione del loro potere contrattuale, difatti i loro rappresentanti hanno firmato tutti gli accordi in questione.[ 16 ] Il fatto che la ricattabilità dei lavoratori e la loro diretta dipendenza dal capofabbrica è notevolmente cresciuta nell’ambito di contratti aziendali non sembra un problema per i rappresentanti sindacali. Per loro la dipendenza dei lavoratori, degradati ad una appendice del successo aziendale, non è di principio un presupposto negativo e non necessita un‘opposizione. Al contrario, la constatata dipendenza è per il sindacato un’opportunità per accedere ad una partecipazione equilibrata al successo dell’azienda. Sembra proprio che questi rappresentanti prendano sul serio i discorsi degli imprenditori che ufficialmente fraintendono la dipendenza dei lavoratori con l’ipocrita responsabilità che avrebbero per loro quando gli offrono posti di lavoro. E proprio da questi poveri diavoli di “datori di lavoro” i sindacalisti pretendono una responsabilità sociale.

Di conseguenza offrono agli imprenditori tutta la loro responsabile collaborazione e quella della loro base sindacale per contribuire al successo aziendale. La generosa distribuzione di incentivi, buoni e premi, cioè il taglio del salario base, connessi al successo della società nella concorrenza mondiale non sono per loro l’espressione dell’incertezza e imprevedibilità della retribuzione reale, ma significano per loro bensì l’incentivo – per i lavoratori l’obbligo – a soddisfare tutte le esigenze del capitale. Il risultato è che tutti i premi, pagati dal capitale a seconda dell’andamento della produzione, dimostrano per i sindacati il successo della loro strategia di collaborazione aziendale:

“Se avessimo seguito la strada del ‘no’ sostenuta dalla Fiom (Federazione impiegati operai metallurgici), la Fiat avrebbe risparmiato 446 milioni di premi solo nel 2015”.[ 17 ]

Un modo per dire, che per un rappresentante degli interessi operai sarebbe ignobile risparmiare dei premi all’imprenditore, serve soltanto per fare polemica contro i colleghi meno cooperativi di quel sindacato che di fronte a questi successi sindacali fa sicuramente una brutta figura: una collaborazione costruttiva conviene – opposizione no. Questo è il messaggio a cui segue immediatamente la precisione pseudo-realistica che il premio si basa naturalmente sulla riduzione dei costi dell’azienda in nome della competitività. In ogni e specialmente in questo caso le competenze economiche del sindacalista deducono il livello del salario dei lavoratori dal ribasso dei costi di produzione dell’imprenditore. Un fatto di massimo interesse per un lavoratore che sa fare i calcoli aziendali di cui si assume la responsabilità:

“Il premio aumenta sulla base della riduzione dei costi delle singole fabbriche cui sono chiamati a contribuire gli stessi lavoratori (e i sindacati) con proposte di miglioramento e di partecipazione al processo produttivo.”[ 18 ]

Un rappresentante sindacale che si arrovella il cervello, dell’imprenditore, in tal modo e che propone i risultati ottenuti agli operai, ha logicamente una comprensione più approfondita del fatto che il premio in questione potrebbe essere da parte sua vittima della contabilità aziendale nel caso in cui, nonostante gli sforzi e l’impegno dei lavoratori per diminuire i costi di produzione, l’azienda non riesce ad avere successo sul mercato. Sia come sia, il lavoratore si potrà adattare al punto di vista della competitività incondizionata della sua azienda anche tramite la necessità di rinegoziare i contratti:

“Furlan ha lanciato un’elogio alla contrattazione che ‘serve per garantire la partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale’ ... ‘una buona contrattazione’, disse ancora la sindacalista, serve anche per rendere i nostri imprenditori più competitivi per operare sul mercato mondiale[ 19 ]

Una singolare, alquanto curiosa interpretazione del significato dell’attività principale del sindacato: “contrattazione”. Molto lontano dall’idea che nelle contrattazioni si tratti sempre di interessi diametralmente opposti, gli imprenditori in unione con il sindacato perseguono l’obbiettivo di raggiungere un coinvolgimento dei dipendenti, non solo in termini di prestazioni lavorative, ma anche in riguardo a tutti gli altri interessi e faccende aziendali, di modo che non solo rispettino gli obbiettivi richiesti, ma che riescano anche ad identificarsi con l’intera azienda. In questo caso i dipendenti saranno in grado – con lo spirito combattivo aziendale idealizzato dal capo della Fiat – di marciare a fianco dell’azienda nelle battaglie della concorrenza globale. Non è una fantasticheria di un singolo sindacalista, né un’utopia. È il realismo della dipendenza e anche la nuova modernità della lotta sindacale. Quando il successo sul mercato mondiale è diventato la premessa pratica di importanza vitale, a cui si subordinano tutti i rapporti aziendali,per ogni sindacalista è chiaro che la strategia globale del suo capitale non è soltanto di interesse teorico, ma il quid pro quo dell’esistenza del sindacato:

“Il positivo della fusione, secondo Giovanni Sgambati, segretario nazionale della Uilm, consiste nel fatto che ‘rinforza il marchio Fiat sul mercato mondiale ... Con Chrysler la Fiat diventa uno dei principali operatori mondiali nel settore automobilistico.’ Il segretario regionale Giuseppe Terracciano dichiara che la fusione è importante ‘perché il nuovo gruppo non si concentrerà solo in Europa ed in Italia, dove si registra una stagnazione’.” (World Socialist Web Site wsws.org, 12.8.14)

Nessuna parola di critica ad un capitale “senza patria” dalla bocca di un combattente sindacale per posti di lavoro italiani. Con un’analisi da gran conduttori industriali questi sindacalisti riescono a trovare nelle avventure estere del loro gruppo il piano patriottico di voler salvare i posti di lavoro nazionali. Difatti tutta la strategia sindacale è volta su quel punto a cui si deve subordinare il resto: il posto di lavoro che, specialmente in tempi di crisi, è una grande fortuna, di cui si deve tener conto prima di tutti i premi e di tutte le condizioni di lavoro nella fabbrica. Il posto di lavoro è la traduzione positiva della dipendenza dei lavoratori dal capitale. E pertanto, anche se la manovra del capo della Fiat nello stabilimento di Pomigliano potrebbe essere presa come un diktat, un‘imposizione contro il ruolo del sindacato come controparte contrattuale, il sindacato non la vede come un ricatto, perché, nonostante tutto, è – come ha detto sempre Marchionne – un veicolo per creare o salvare posti di lavoro per il paese e i suoi abitanti.

In questo caso è espressamente vietato mercanteggiare come in un bazar sulle condizioni del lavoro e del tutto inutile discutere, visto che la controparte affina “l’offerta” ad un’assoluta e incondizionata ratifica da parte del sindacato. La pubblica dissociazione da quei compiti contrattuali che generalmente sono, e finora erano le competenze sindacali, è il primo dovere di un rappresentante sindacale adeguato ai tempi e in piena responsabilità per la sua clientela. Questo tipo di passività in un rapporto, determinato unilateralmente dal capitale, è l’attuale strategia sindacale: la sottomissione è l’unica opzione:

“Mi sembra che (il rifiuto di firmare il contratto con la Fiat) sia un comportamento senza senso, come se volessimo avvelenare i pozzi d’acqua nel deserto. C’è così poco lavoro in Italia, specialmente al Sud. Pensare di poter affrontare gli aumenti della produzione con strumenti sindacali, che si orientano più al passato che al futuro, ... vorrebbe dire che i sacrifici dei lavoratori sono stati inutili.” (Giovanni Sgambati, segretario generale della Uilm, Quotidiano, 13.2.15)

Nel momento in cui il capitale radicalizza la sua libertà d’azione il rappresentante dei lavoratori non si preoccupa della sua constatata impotenza ma interpreta l’imperativo aziendale come la premessa per far partire la macchina che crea posti di lavoro, cercando di aiutare l’azienda ad avviare il motore. E non si cela il fatto che questo tipo di assistenza aziendale comprende di far capire ai lavoratori che devono fare i relativi “sacrifici” . Inoltre questo sindacato insiste sull’esigenza – come lo dimostra la sua polemica contro la linea sindacale palesemente superata e del tutto sbagliata della Fiom – di condurre alla “ragione” i dissidenti nelle sue file, cioè di sbarazzarsi rigorosamente degli “avvelenatori dei pozzi”. L’accusa nei loro confronti è di mettere in pericolo i posti di lavoro.

2. Il movimento sindacale diviso trova una nuova unità

La frazione del movimento sindacale denunciata come traditrice della classe operaia è la Cgil, pur sempre una delle associazioni più rappresentative del sindacato. Specialmente i metalmeccanici più attivi della Fiom sono screditati come i “contestatori” di principio. La Cgil, almeno all’inizio, non ha firmato i contratti sull‘emarginazzione degli accordi settoriali e con ciò l‘indebolimento dei sindacati. Anche il principio di una separata conduzione dei negoziati, che istituzionalizza la scissione dei sindacati nella contrattazione collettiva stessa, cancellando i contratti nazionali e riconoscendo solo sindacati firmatari, viene contrastato dalla Cgil/Fiom con conseguente dissociazione dall’alleanza Cisl e Uil.[ 20 ]

Così anche nel caso della Fiat è evidente con quanta facilità il capitale affronta il confronto con una controparte che si smantella e si indebolisce da sola: quando tutte le imposizioni del capitale vengono accettate – e come da esso preteso, senza se e senza ma – dai metalmeccanici della Cisl e Uil, allora la Fiom è fin dall’inizio del tutto isolata con il suo rifiuto di firmare il contratto. Il suo appello a scioperare non viene condiviso dalla base operaia ed è oggetto della campagna diffamatoria della sua concorrenza sindacale.[ 21 ] Visto questa impotenza sindacale ovvero il proprio strapotere, la gestione aziendale coglie l’occasione per escludere dall’azienda l’unico relitto di un movimento sindacale di un’altra epoca.

La Fiom, che con il suo appello a scioperare vuole ricordare che un sindacato che lotta contro il capitale per migliori condizioni di lavoro e di salario e non per posti di lavoro a qualsiasi costo, deve imporsi come un’effettivo contrapotere e quindi ha bisogno del sostegno della sua base operaia e non certo dell’ostilità degli altri sindacati, perde la battaglia anche in questo caso. Ma anche i suoi funzionari non intendono per niente imparare da questa situazione che organizzazioni del genere non solo non servono, ma che si contrappongono addirittura al punto di vista di classe e che quindi bisognerebbe organizzare l’opposizione alla base, con altri obbiettivi e altri sostenitori.

Anzi, la Fiom non prende la triplice sconfitta, impostale dal Gruppo Fiat, dagli altri sindacati e infine dalla base operaia, come tale, ma la interpreta come una vittoria: alla luce del rapporto di forza esistente lo sciopero organizzato nello stabilimento di Pomigliano non era nient’altro che la dimostrazione che un sindacato militante non si lascia sottomettere facilmente. Una dimostrazione che, a posteriori, ha funzionato, dato che l’espulsione della Fiom dall’azienda grazie all’intervento della corte costituzionale deve essere revocata. Così il capo della Fiom Landini può vantarsi che di fronte all’uragano Marchionne – così si esprime – ha conservato i “valori del pluralismo e la libertà di azione della organizzazione sindacale” (così il testo del verdetto della Consulta) e ha ottenuto una “vittoria storica” nel campo dei diritti – e si deve rilevare: senza che cambi qualcosa alle misere condizioni del lavoro nelle fabbriche di Marchionne.

Inoltre l’accusa contro questo sindacato di essere contestatori da sempre, contro il progresso e di perseguire una “strategia del no” assoluto è veramente del tutto ingiusto. Non solo che la Cgil ha firmato un sacco di accordi [ 22 ] – naturalmente con torsioni e sofferenze – anche di quelli che lei stessa avrebbe sempre escluso, anche i suoi riluttanti metalmeccanici, che respingono ogni contratto “separato”, continuano a lottare ancora – sotto protesta – contro la perdita di potere contrattuale. Se una volta erano per motivi ragionevoli contro ogni tipo di buoni o premi al posto di un salario base, trovano adesso, visto che ormai sono stati installati, che sono un’ingiustizia e in questo consiste il loro elemento distintivo nei confronti degli altri sindacati.

L’ulteriore accusa che la Cgil e la Fiom blocchino di continuo gli sforzi degli altri bravi sindacati di creare insieme al capitale posti di lavoro, è un colpo al cuore di questi onorevoli avvocati degli interessi operai, che respingono decisamente perché in fin dei conti ci tengono anche loro ai posti di lavoro. Di conseguenza, dato che le lotte sindacali in questo senso sono sempre a doppio taglio e possono – come è noto – compromettere posti di lavoro, decidono di non scioperare più, almeno a partire dalla tragedia di Pomigliano. Nel loro impegno per la salvaguardia dell’occupazione negli ultimi tempi si sono messi d’accordo con le altre due associazioni e la confederazione degli imprenditori sul tema della ricollocazione dei lavoratori che permette ai lavoratori di ritornare a lavorare (in che forma e condizioni, non interessa).[ 23 ]

3. Contro la concorrenza dei lavoratori: solidarietà nei sacrifici

In un punto i sindacati rivali sono tra loro del tutto d’accordo – sia per delusione o per lucidità: quando quella ‘macchina che crea posti di lavoro’ non parte e non produce posti di lavoro nonostante la benevole tolleranza o partecipazione da parte dei sindacati, come succede adesso, allora al sindacato serve un’altra o una temporanea soluzione. Dal fatto che il lavoro non aumenta – in numeri di posti di lavoro! – il sindacato non deduce che il capitale ritenga il lavoro economicamente non redditizio e quindi superfluo, bensì che il lavoro sia una risorsa limitata. E dato che questa situazione è da anni la sorte del paese, non rimane che dividersi il lavoro. Questo compito comune, la ridistribuzione del lavoro esistente, è diventata la ragion d’essere delle attività sindacali contemporanee.

In questo senso i sindacati si riferiscono al cosiddetto “contratto di solidarietà”, un contratto tra i datori di lavoro e il sindacato sotto tutela del governo, prima di tutto per evitare licenziamenti previsti dalle ditte in crisi, diminuendo i tempi di lavoro e chiaramente anche la retribuzione di tutto il personale e in secondo luogo per alleviare la cassa integrazione, cioè le finanze statali. Una chiara offerta agli imprenditori di ridurre i costi del lavoro e di mantenersi nello stesso tempo una riserva di personale qualificato per tutti i fabbisogni aziendali. Una funzione già assolta in modo simile dalla cassa integrazione che parcheggiava per diversi anni i lavoratori superflui.

I sindacati all’inizio non si avvalgono di questa possibilità contrattuale, perché insistono sulla responsabilità della cassa integrazione e non certo sul problema dei tagli salariali. Questo punto di vista è cambiato non solo per il fatto che il governo con il suo Jobs Act ha ridotto la possibilità di ricorso alla cassa integrazione, ma anche perché nel frattempo per il sindacato il Jobs Act rappresenta uno strumento efficace per la lotta sindacale per una nuova organizzazione del lavoro e per la dimostrazione del senso di responsabilità sociale del sindacato.

Pertanto anche la Fiom sostiene il recente contratto di solidarietà che è stato firmato tra i sindacati e il reparto carrozzeria di Mirafiori, dopo che la Fiat aveva proposto come alternativa il licenziamento di 1303 lavoratori: per 2369 lavoratori il contratto significa una riduzione dell’orario di lavoro e del salario di ben 55 %.[ 24 ] L’osservazione critica di un funzionario della Fiom:

“La Fiom critica il fatto che la solidarietà valga solo per un terzo del reparto: ‘Chiediamo che con l’assestamento della produzione ... si possa coinvolgere tutta la fabbrica, per evitare che i sacrifici ricadano solo su una parte dei lavoratori.’” (la Repubblica, 31.8.16)

Le rivendicazioni moderne dei sindacalisti pretendono una ripartizione coerente e rigorosa dei ‘sacrifici’ coinvolgendo negli accordi futuri anche i lavoratori della Maserati (che continuano a lavorare a tempo pieno) di modo che i sacrifici già contrattati possano essere ridotti distribuendoli su più lavoratori.[ 25 ] In una direzione simile ragiona anche un collega della Uil dicendo che solo in questo modo si possono “creare le condizioni per garantire la continuità operativa a tutti i lavoratori”, perché per uno che è solo forza lavoro la più brutta cosa è il fatto di non essere utilizzato. Interessante come un’altro funzionario della Fiom spiega la proposta di inserire un turno supplementare al posto degli straordinari:

“‘Si attivi il terzo turno, permettendo anche a chi è in contratto di solidarietà di inserirsi nel ciclo produttivo’. L’impennata di richieste di Panda – concludono gli uomini di Landini – ‘è un elemento positivo che permette di revocare la cig, ma l’utilizzo dello straordinario con circa 2mila lavoratori ancora in contratto di solidarietà è ingiusto e immorale. La testardaggine a voler ricorrere al sabato di straordinario appare un ennesimo tentativo di contrapporre lavoratori contro lavoratori’.” (Michele de Palma, coordinatore Auto della Fiom, 13.2.15, Quotidiano.net)

Un sindacalista della Fiom, al passo con i tempi, ha meno preoccupazione per il salario e più preoccupazione per le spese della Cassa, ragiona dal punto di vista dell’intera società e dimostra a livello sociale un un gran senso di responsabilità. Seguendo la linea di pensiero dei suoi rivali sindacali considera i successi dei capitalisti – molte vendite della Panda = molto bene – un’opportunità per i lavoratori. L’appello di non farsi contrapporre uno contro gli altri (lavoratori contro lavoratori) non è inteso come esigenza pratica di una lotta sindacale, che neanche lui vuole, bensì come necessità di un tipo di solidarietà moralista che pretende più giustizia nell’obiettivo di migliorare la distribuzione del lavoro. E quindi entra in gioco addirittura, ma in tutta coerenza il Papa:

“I metalmeccanici della Cgil invitano i lavoratori a dimostrare che la solidarietà è un ‘valore che unisce, come dice anche Papa Francesco, quel poco che abbiamo, che siamo, se condiviso diventa ricchezza’, aderendo allo sciopero.” (ibid. 13.2.15)

Con o senza la benedizione papale, la predica sindacale sulla solidarietà dà ragione proprio a quell’antagonismo di classe di cui parla il capo del governo quando critica il “privilegio” ingiusto di un lavoratore a tempo pieno nei confronti dei disoccupati. Si potrebbe anche dire: queste argomentazioni trasformano la realtà deprimente che un posto di lavoro nel frattempo è veramente una rarità , in una specie di prerogativa (diritto), che permette di accusare di immoralità e di egoismo il suo detentore.

Anche sotto il tetto della nuova unità sindacale le rivalità non diminuiscono per niente e la Fim/Cisl accusa la Fiom di voler rifiutare a Pomigliano la firma sotto un simile contratto come quello accettato a Mirafiori. Un’atteggiamento del genere serve solo per vantarsi all’interno del movimento sindacale di essere il promotore più coerente della missione sindacale della redistribuzione del lavoro e dei sacrifici, un’obiettivo su cui tutti i sindacati sono d’accordo. Nonostante il fatto che la cooperazione con il capitale non ha prodotto alcun nuovo posto di lavoro, la strategia sindacale progressista della redistribuzione dei posti di lavoro esistenti - in accordo nuovamente con il capitale – crea dei rapporti di lavoro, di cui nessuno può vivere. Questo è tutta la “ricchezza” di cui ci si può vantare.

4. La lotta continua per la dignità del lavoro

Il sindacato organizza la gratitudine proletaria nei confronti di quella risorsa scarsamente disponibile, chiamata posto di lavoro e si assume la responsabilità per la coesione sociale della classe operaia ... e nessuno lo ringrazia:

Si negava la funzione dei sindacati e il loro positivo ruolo per la coesione sociale, e il rischio c’era.” (Susanna Camusso, segretario generale Cgil, la Repubblica, 10.9.16)

La preoccupazione per la coesione sociale, in cui il controllo e la subordinazione dei lavoratori è il ruolo del sindacato, sembra che non tormenti lo Stato e il capitale, quando esprimono la loro intenzione di non riconoscerlo come parte in gioco. Però è difficile mettere in crisi la volontà costruttiva di certi sindacati: anche quando i sindacalisti più “progressisti” registrano di essere diventati superflui, nel fatto di venir snobbati dalla controparte non si lasciano scoraggiare.[ 26 ] Per salvare gli interessi professionali dell’associazione sindacale, la sua capacità di trattativa, le frazioni rivali di Fiom, Uilm e Fim concordano un piano d’attacco per costringere la controparte: Al tavolo! Contrattazione! E con questo i sindacalisti di tutti i tipi riescono a vedere all’orizzonte un notevole accenno di democrazia, anche se la realtà consiste solo nel fatto che la controparte ha solamente accettato di ritornare al tavolo con il sindacato. Né più né meno.

Lo Stato da parte sua accusa il sindacato di non voler raggiungere per principio un accordo sul salario minimo. La relativa “offerta” dei datori di lavoro, talmente abietta e sfacciata che neanche Cisl e Uil la vogliono accettare, e la minaccia di Renzi di fissare questo salario base minimo tramite un decreto legge senza partecipazione del sindacato, fanno sì che i sindacati decidono puntualmente una collaborazione più stretta. A questo scopo, di ottenere una “contrattazione”, parte l’appello a tutti i rappresentanti e membri sindacali di scendere in piazza. Queste manifestazioni sono di per sé un successo perché dimostrano in ogni caso che l’unità sindacale esiste ancora:

“Per prima cosa mi sembra molto significativo che le organizzazioni sindacali dei metalmeccanici (Fim, Fiom e Uilm), pur avendo presentato due diverse piattaforme e pur avendo alle spalle 8 anni di contratti separati e di lacerazioni – pensiamo anche a tutta la vicenda Fiat – abbiano proclamato insieme lo sciopero generale della categoria con manifestazioni regionali

E per seconda cosa proprio l’unità è il vero traguardo sindacale da festeggiare:

“L’obiettivo, deciso nell’Assemblea nazionale della Fiom svolta a Cervia, di riconquistare un rinnovato contratto collettivo nazionale di lavoro unitario per tutti i metalmeccanici è stato raggiunto. Tre condizioni sono state decisive: la capacità di mobilitazione e di lotte delle lavoratrici e dei lavoratori; la volontà e la capacità di ricercare una nuova sintesi unitaria da parte di Fim, Fiom e Uilm; la scelta di Federmeccanica di giungere al contratto unitario e di modificare le posizioni espresse lo scorso 22 dicembre 2015.”[ 27 ]

Il contenuto del contratto non sembra preoccupare molto i firmatari del sindacato, all’infuori di un paio di oppositori idealisti del ‘sindacatoèunaltracosa’: mediocri aumenti salariali riassorbibili da tutti gli aumenti contrattati in sede aziendale, premi/buoni aziendali variabili a seconda degli interessi aziendali e collegati alla produttività (premio di risultato, previdenza/pensione, sanità, welfare, formazione continua), una nuova scala mobile ex post, riduzione delle 150 ore di formazione a 24 ore annue di attività formativa con contenuti di interesse strettamente aziendale, aumento degli straordinari obbligatori fino a 120 ore annue, flessibilità orarie, penalizzazione della malattia etc.[ 28 ] Un copione del contratto con la Fiat del 2015 che aveva costato alla Fiom l’espulsione dalla fabbrica. È quindi chiaro che di fronte a questa contrapposizione tra contenuto del contratto e priorità dell’unione sindacale bastano 24 ore di sciopero generale in diverse regioni per sottolineare la disponibilità dei sindacati ad accettare tutte le pretese della Federmeccanica.

Per questo obbiettivo il sindacato mobilita i suoi attivisti. Scioperi aziendali che valgano il loro nome non sono più all’ordine del giorno e quando gli operai vengono chiamati allo sciopero, come sei anni fa a Pomigliano, si presentano in pochi. I lavoratori difatti si attengono alla concorrenza per i posti di lavoro, da cui dipende la loro esistenza e da parte loro considerano ogni imposizione del capitale come una necessità e unica opportunità che bisogna accettare e sopportare. E per questo punto di vista non hanno proprio bisogno di un sindacato.

Dinnanzi a questa dimostrazione della propria inutilità il sindacato non intende rassegnarsi. Al contrario, il sindacato persiste sull’incarico sociale che lui stesso si è assegnato e a cui vuole impegnarsi, e che adesso adatta alla nuova situazione senza diminuirne l’importanza e il suo valore morale: il suo compito principale non è l’ingrata gestione quotidiana delle lotte operaie per il miglioramento delle loro condizioni, ma in primo luogo l’impegno di valorizzare i diritti e la dignità del lavoro in quanto tale.[ 29 ] In questo impegno la Cgil vede un coerente sviluppo di una nuova solidale riorganizzazione del lavoro nazionale. La coesione, proposta dal sindacato, di un popolo di lavoratori che non ha di se una coscienza di classe e alla cui creazione neanche il sindacato intende contribuire, deve raggiungere una nuova qualità in un quadro giuridico in cui i diritti di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori “senza differenza” sfoceranno in un nuovo Statuto dei lavoratori. La Cgil persegue questa idea “storicamente rivoluzionaria” con la campagna “Carta dei diritti universali del lavoro – Patrimonio di dignità e di libertà’”. Seguendo questa missione il sindacato vede realizzati due scopi: Rendersi indispensabile, perché responsabile per tutto il mondo del lavoro e lottare allo stesso tempo per il suo progresso.

Parliamo all’insieme del mondo del lavoro ai lavoratori dipendenti, a tempo indeterminato o meno, pubblici e privati, ai precari in tutte le varie forme, e al mondo del lavoro autonomo.” (Conferenza stampa Susanna Camusso 25.1.16, www.cgil.it)

Quando la portavoce del diritto alla rappresentanza sindacale, cosa che nelle fabbriche del grande capitale le viene praticamente contestato, la ripresenta in veste universale, questo atto non significa l’inizio di una lotta contro tutte queste nuove e vecchie forme di sfruttamento, ma il loro riconoscimento come lo stato attuale delle condizioni di lavoro, per le quali lei intende richiedere una guaina costituzionale. Per il più grande sindacato italiano questo è il campo principale e più importante delle sue attività. Se tutte queste forme moderne di sfruttamento ottengono un contesto costituzionale – iniziato dal sindacato – allora acquistano anche quel valore che di principio merita ogni tipo di lavoro:

“Il nuovo Statuto vuole innovare gli strumenti contrattuali preservando quei diritti fondamentali che devono essere riconosciuti ed estesi a tutti, senza distinzione, indipendentemente dalla tipologia lavorativa o contrattuale, perché inderogabili e universali... Non si è mai costruita una operazione con queste caratteristiche e per questo la consideriamo una grande sfida di ricostruzione di un profilo di valore del lavoro.” (ibid.)[ 30 ]

Il sindacato è a suo parere la forza più vitale della Nazione e l’unica in grado di affrontare questa “grande sfida”. Questo deriva anche dal fatto che il Capitale e lo Stato si rifiutano di affrontare questa sfida: il Capitale degrada il lavoro quando non utilizza questo prezioso bene dell’umanità e quando non rispetta i rappresentanti sindacali; lo Stato, che effettivamente avrebbe il dovere di garantire il principio dell’uguaglianza tra il lavoro e il capitale, viola questo principio fondamentale proteggendo unilateralmente gli imprenditori:

La tendenza delle imprese è quella di andare verso il superamento della contrattazione collettiva come mediazione di interessi tra il capitale e il lavoro. Questo significa che non c’è più una sede comune che definisce i diritti che le imprese riconoscono come elemento di mediazione sindacale ma si sta tentando di affermare il fatto che l’impresa è l’unico ‘luogo’ deputato a gestire in maniera unilaterale il rapporto di lavoro... L’attacco non è avvenuto solo sul piano dei rapporti di forza contrattuali ma anche a partire dal fatto che oggi il capitale – sempre più finanziario – sta pesantemente incidendo sul quadro politico; lo sta condizionando al punto che anche la produzione legislativa, su tutte le questioni del lavoro - dai diritti fino al funzionamento dell’impresa – sta rispondendo a una logica di massima libertà d’azione per l’impresa e per i suoi interessi.” (Landini: Contratto, referendum, Europa. La Fiom alla prova dei 115 anni. 11.7.16, www.fiom-cgil.it)

Il sindacalista Landini si riferisce da una parte all’antagonismo tra capitale e lavoro, quando si lamenta che lo Stato e il Capitale conducono una battaglia offensiva contro lavoratori e sindacato, dall’altra parte riduce il fatto ad una “tendenza” che ha perso soltanto l’equilibrio e che quindi non è affatto un’antagonismo:

“Il lavoro deve continuare ad avere almeno una pari dignità rispetto all’impresa.” (ibid.)

Per restituire l’onore perduto del lavoro bisogna fare sul serio con il Patto nazionale per il lavoro. Con grande fiducia in se stesso, nel suo senso patriotico di responsabilità e spirito d’iniziativa, che solo lui al giorno d’oggi dimostra, il sindacato critica il governo italiano in nome della Nazione – sia a livello interno che esterno: cioè la mancanza di sovranità nei confronti del potere privato degli imprenditori così come l’assenza di sovranità nazionale di fronte all’Europa della Merkel e i suoi programmi di austerità causerebbero la perdita di crescita economica e di posti di lavoro in Italia.

In linea di principio i rappresentanti dei lavoratori condividono con il capitale nazionale e con il ‘proprio’ Stato l’opinione che i posti di lavoro devono essere e rimanere italiani. Ai sensi di questa solidarietà nazionale tra lavoro e capitale bisogna quindi compiere maggiori sforzi e sacrifici per garantire la competitività del capitale nazionale sul mercato mondiale, senza di cui non esistono posti di lavoro. La loro esistenza è a sua volta la condizione necessaria per assicurare ai lavoratori “almeno una pari dignità” di sfruttamento.

Questa è la lotta continua odierna.

 

 

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Traduzione del articolo “Lotta continua im Krisenstaat Italien. Von den Fortschritten der Gewerkschaftsbewegung im Zeitalter des Kampfes um Arbeitsplätze” pubblicato nella rivista politica trimestrale GegenStandpunkt 4-16

[ 1 ]Il paradosso che un lavoratore che lavora per guadagnare i soldi necessari per poter vivere il meglio possibile è confrontato con un sistema in cui il risultato dei suoi sforzi consiste da una parte in un continuo deterioramento della sua forza lavoro e della sua vitalità, dall’altra parte in un guadagno periodico che (basta in certi casi fino alla fine del mese e) in ogni caso, nonostante tutti gli stravaghi e le comodità che può permettersi, basta solo per tirare avanti, non è un mistero. Ma questo paradossso funziona, senza un’opposizione significativa. L’adattamento alle circostanze esistenti, agli strumenti di sopravvivenza e di miglioramento delle proprie condizioni di vita (, contro cui un solo individuo non può far molto,) è una necessità in questo sistema. Non è per niente una necessità, anzi è un errore trasformare le modalità, gli obblighi e gli imperativi definiti ed imposti dagli imprenditori in corrispondenti offerte e occasioni buone, utili e positive per raggiungere i propri scopi. Un tal ragionamento non è solo un errore teorico, ma un rapporto pratico nei confronti di tutte le restrizioni del sistema capitalista: nuove condizioni di lavoro più rigorose sono pertanto sfide da risolvere e da superare; crescita degli straordinari un’occasione per aumentare il salario; cambiamento del posto di lavoro sono un incentivo per dimostrare le proprie capacità lavorative; la concorrenza delle altre imprese un attacco contro la ‘nostra’ azienda e eventuali licenziamenti un problema. Così funziona il sistema!

[ 2 ]“La mobilità interna tra le aree produttive manterrà un’alta flessibilità per consentire una distribuzione omogenea dei lavoratori durante i loro turni. In pratica entro la prima ora di ogni turno gli operai potranno essere spostati per coprire assenze, carenze o problemi tecnici.” (ilpost.it, 23.6.10)

[ 3 ]Un modello che, in punto intensificazione del lavoro e disciplina dei lavoratori, viene adottato non solo alla Fiat, ma anche nelle aziende automobilistiche tedesche che dirigono letteralmente i loro fornitori italiani. (Vedi Il Venerdì di Repubblica, 31.12.15)

[ 4 ]Nella sua “lettera” del 09.07.2010 Marchionne comunica ai dipendenti non come capo dell’azienda e specialmente non come padrone, ma: “... da uomo che ha creduto e crede sempre ancora fortemente che abbiamo la possibilità di costruire insieme, in Italia, qualcosa di grande, di migliore e di duraturo”, ricordando che i lavoratori devono impegnarsi, come comunità aziendale con un destino comune, nella lotta della Fiat e dell’Italia nell’ambito della concorrenza internazionale: “Questa è una sfida tra noi e il resto del mondo. Ed è una sfida che o si vince tutti insieme oppure tutti insieme si perde. Non ci sono alternative”

[ 5 ]“Crediamo in un sistema sano di aumenti retributivi legati ai risultati delle aziende. La ricchezza va distribuita dove si produce e dopo che si è prodotta. Abbiamo questo obiettivo, non abbiamo pregiudiziali” - Stefano Franchi, Direttore generale di Federmeccanica – La decentralizzazione è stata portata avanti nell’accordo del 2009 e del 2011 con il passaggio da Berlusconi al governo Monti che favoriva sul piano fiscale accordi su salari legati alla produttività aziendale.

[ 6 ]Con la scala mobile negoziata tra sindacati e Confindustria negli anni di pressioni inflazionistiche sulla Lira il sindacato intendeva introdurre nel salario uno strumento di parziale compensazione per la perdita del potere d’acquisto. La scala mobile è stata abolita nel 1991

[ 7 ]Inclusa un’Opzione Donna che garantisce un prepensionamento a 57 anni di età con un taglio sull’assegno di almeno 30 %, l’abbassamento fino a 3 anni dell’età pensionabile con una penalizzazione del 3-4 % annuale, un prestito pensionistico, ricorrendo ad un mutuo da chiedere alle banche ed a coperture assicurative per coprire il rischio di morte prima di avere pagato il debito, per i lavoratori che si ritirano prima del previsto che dovranno per anni restituire in rate dalla loro pensione e così via.

[ 8 ]“I soldi sono pochi, ma dovranno bastare a premiare chi raggiunge gli obiettivi e a svecchiare - anche anagraficamente - una pubblica amministrazione ancora troppo debole quanto a competenze digitali.” E più avanti “Un addio al posto fisso e agli scatti automatici per gli statali che rappresenta il cuore della riforma Madia” (La Repubblica, 27.7.16)

[ 9 ]“La crisi economica degli ultimi anni ha lasciato il segno: la povertà è in crescita e in Italia più che negli altri paesi. A scattare la drammatica fotografia è stato ieri l'Istat: soffrono le famiglie numerose, quelle di origine straniera ma soprattutto il nucleo- tipo (due genitori giovani e due figli) fa fatica a sbarcare il lunario.” (La Repubblica, 15.7.16)

[ 10 ]Nuova assicurazione per impiego” così si chiama il nuovo “ammortizzatore sociale” da maggio 2015. Questo sussidio ha una durata massima di 24 mesi, andando nei particolari, la durata massima prevista è pari alla metà delle settimane coperte da contribuzione nei quattro anni precedenti il giorno di perdita del lavoro. Requisiti per la domanda: stato di disoccupazione involontario, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione e il lavoratore deve poter far valere trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione. Importo e calcolo: Nel caso in cui la retribuzione mensile risultante dall’operazione fosse pari o inferiore, per il 2015 all’importo di 1195 euro mensili, l’importo della Naspi sarà determinato in misura pari al 75 % della retribuzione stessa. L’importo massimo non potrà superare i 1300 euro. Regole e sanzioni: il nuovo sussidio di disoccupazione prevede che i disoccupati debbano impegnarsi nella ricerca attiva di lavoro, essere disponibili a offerte di lavoro conformi al loro profilo professionale e massima flessibilità di residenza. Per coloro che non stipuleranno il patto di servizio sono previste sanzioni che possono comportare anche la revoca della Naspi.

[ 11 ]Per di più i pensionati sono a loro volta vittime del risparmio statale perché dal punto di vista del bilancio la crisi produce sempre meno contribuenti e sempre più beneficiari di prestazioni sociali. La Riforma Monti-Fornero che prevedeva una pensione a 66 anni, un prepensionamento a 63 anni, con 42,5 anni di contributi e di 1% per ogni anno, viene modificata portando l’età di pensione a 66 anni e 7 mesi, in caso di prepensionamento è previsto un’anticipo pensionistico finanziabile da banche, che costerà ai futuri prepensionati, con rate di rimborso e di interessi, 15% della loro pensione annuale.

[ 12 ] La creatività degli imprenditori ha prodotto anche in Italia una varietà di forme di lavoro a basso costo: lavoro a chiamata e quello remunerato con i vouchers, accordi sui Call Center, contratti a termine o di collaborazione a progetto ecc.

[ 13 ]“I vouchers si moltiplicano e il lavoro nero aumenta sempre più” (Susanna Camusso, Segretaria generale della Cgil, 17.7.16) – Nonostante l’obbligo di comunicare (via sms o email) l’intenzione di usare i voucher prima che inizi la prestazione, gli imprenditori sapranno adattarsi a questa richiesta del Ministero, che in ogni caso rappresenta per loro una molestia burocratica del tutto inutile e superflua.

[ 14 ] Con il dialogo sociale che ha sostituito la precedente concertazione tra le parti sociali il governo Berlusconi completa la scissione die tre grandi sindacati: al dialogo possono solo partecipare quelle istituzioni che hanno dimostrato di fronte agli imprenditori e allo Stato di volere accettare le nuove linee della politica contrattuale e della liberalizzazione del lavoro. In pratica, gli obbiettivi degli incontri vengono individuati di volta in volta dal Governo e le parti sociali svolgono un ruolo marginale limitato al parere.

[ 15 ]“Il Paese non lo cambia chi urla e contesta. Non lo cambia chi fischia..., lo cambia chi rischia non chi fischia” (Matteo Renzi, 10.6.16)

[ 16 ]Gli accordi più importanti sono quelli del 2009 e 2011, ai tempi in cui il governo Berlusconi approva una legge (!) che permette a singole imprese di derogare non solo alle norme tariffarie, ma anche alle regole legislative.

[ 17 ]Ferdinando Uliano della Fim (Federazione italiana metalmeccanici, Csil), Il Messaggero 03.02.2016

[ 18 ](ibid.) ... ma i sindacalisti di questo tipo sono anche autocritici: “L’unico rammarico riguarda la piccola percentuale di dipendenti esclusi dal premio.”

[ 19 ]Anna Maria Furlan, segretaria generale della Cisl/Fim, rassegna.it, 17.7.16

       “Per Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, ‘è il segno di una fase nuova’. È dello stesso parere Annamaria Furlan, segretaria della Cisl: ‘È un risultato positivo, che rende il lavoratore partecipe e protagonista. Queste sono le relazioni del Paese.’” (Ilfattoquotidiano.it, 16.5.15)

[ 20 ]Il carattere della scissione del movimento sindacale italiano ha una lunga storia: Cisl (cristiana) e Uil (socialdemocratica) erano nel dopoguerra creature della ragione di stato e dei partiti contro i comunisti. Il loro scopo: eliminazione o perlomeno riduzione dell’influenza del Partito Comunista e della Cgil nelle contrattazioni nazionali e nelle singole imprese; delazione degli scioperi iniziati dai sindacati comunisti come scioperi “politici” e conclusione di accordi separati con la Confindustria. Imprese americane non fanno investimenti in ditte con rappresentanza sindacale comunista. Fiat dichiara di non voler contrattare con la Fiom, accordi aziendali non vengono applicati a dipendenti organizzati nella Fiom e infine crea uno speciale, economicamente inutile, reparto per reintegrare nell’azienda i rappresentanti Fiom, prima licenziati e poi per decisione giudiziaria reintegrati, e separarli dal resto dei dipendenti. Gli accordi separati, cioè da stabilimento a stabilimento, sono un’usanza degli anni 50 e 60 fino a quando la base operaia, senza preoccuparsi della sovrastruttura dei sindacati divisi, inizia scioperi illegali e riesce a ottenere nelle grandi aziende aumenti di salario, diminuzione degli orari e migliori condizioni di sicurezza sul lavoro per tutti i dipendenti. In quel modo costringono i sindacati all’unità (1972-1984). In verità l’elemento essenziale dell’unità sindacale consiste nel voler ammansire le attività autonome. Dopo esserci riusciti ognuno si ritira nella sua associazione corporativa ritrovandosi insieme nella concertazione, fino a quando Berlusconi con il dialogo sociale non pone termine alla collaborazione o meglio la continua solo con la Cisl e Uil con esclusione della Cgil.

[ 21 ]Un funzionario della Fiom-Bologna: “La novità è che le ostilità non sono più tra sindacati e azienda, ma direttamente tra la Fiom e le altre sigle. Questa volta poi, al contrario del passato, non c’è più nessun tentativo di abbassare i toni o dissimulare lo scontro. “In queste condizioni – spiega Bruno Papignani, segretario bolognese dalla Fiom-Cgil – difficilmente festeggeremo il Primo Maggio assieme a chi lavora contro la democrazia in accordo col padrone”. (ilfattoquotidiano.it, 19.4.12)

[ 22 ]Nonostante che la Cgil avesse rifiutato di dare il consenso alle deroghe del contratto nazionale Ccnl 2009 e nell’accordo del 2011 fissava che negli accordi aziendali non è possibile discostarsi dai temi e dalle procedure che non sono presenti nei contratti nazionali... a parte che – le solite eccezioni alla regola – ci si trovi in una situazione di crisi o nel caso di investimenti notevoli. Cioè al giorno d’oggi quasi sempre!

[ 23 ]Accordo Confindustria-Cgil-Cisl-Uil del 1.9.16

[ 24 ]Nella lingua aziendale, ma in parte anche sindacale, accordi di questo tipo vengono denominati “ammortizzatori sociali”

[ 25 ]La formula matematica sindacale è: “lavorare meno e lavorare tutti”. Per cui ci si domanda: e di che cosa si vive? A parte il fatto che in verità il motto valido è quello di Marchionne “lavorare di più in di meno”.

[ 26 ]Non solo il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, festeggia il fatto che il governo invita i sindacati al tavolo dei negoziati sul tema delle pensioni: “Dopo lungo tempo il governo ha iniziato un confronto di merito, non è una novità da poco” naturalmente solo grazie alla pressione del sindacato. Anche la sua collega Furlan della Cisl si lamenta del mancato rispetto del governo nei confronti del sindacato, ma è nello stesso tempo contentissima – come la Cgil – del fatto che il governo negozia di nuovo con loro: “Furlan esprime l’auspicio che questo “segni davvero un cambio di passo nel rapporto tra governo e sindacati” (pmi.it/economia/lavoro/news)

[ 27 ]Dichiarazione del Comitato Centrale Fiom-Cgil del 27.11.2016, www.fiom-cgil.it

[ 28 ]Un tale insieme di regole, oltre a rappresentare un sistema contrattuale completamente nuovo, significa lo smantellamento completo del contratto nazionale... Se anche l'ipotesi previsionale fosse confermata, l'aumento in questione sarà di soli 51,7 euro sui minimi in 4 anni, ovvero quasi la metà di quanto stipulato da pressoché tutte le altre categorie della Cgil... Questo accordo mette la parola fine a qualsiasi possibilità futura di contrattazione e aumento del salario da parte sindacale a livello nazionale e generale, attraverso l'introduzione del meccanismo dell'aumento automatico e esclusivo dei minimi ex post in base all'indice IPCA (Indice Prezzi al Consumo Armonizzato) reale. Stessa caratteristica avrà l'elargizione dei piani di Flexible Benefit, le cui modalità di gestione e caratteristiche saranno lasciate completamente in mano aziendale.” Dichiarazione di voto in opposizione alla firma del contratto di Eliana Como (sindacatoèunaltracosa, opposizione Cgil)

[ 29 ]Per la libertà e la dignità del lavoro – Democrazia al lavoro” Volantino sciopero generale 9.3.13 Fiom. “Ci siamo permessi di riprendere alcune citazioni che Lei (il Papa Francesco) ha pronunciato sul tema della dignità del lavoro e nelle quali ha espresso contenuti e valori per noi fondamentali... il lavoro, come Lei spesso annuncia, è una parte fondamentale per affermare la dignità del singolo e di una comunità” Elena Lattuada, segreteria Cgil: lettera al Papa al 1. Maggio. Invece di una critica all’ideale borghese di una giustizia sociale e della dignità umana il sindacato si impegna, come il rappresentante cristiano dell’umanità, a praticare questo ideale trasformando il lavoro capitalista in un valore fondamentale e il lavoratore in un citoyen (cittadino) in una comunità da difendere.

[ 30 ]Già nel 1968 la Cgil ha riunito i lavoratori precari in una particolare forma di rappresentanza sindacale: Sindacato dei lavoratori atipici. – Questa iniziativa rivoluzionaria per questo Statuto dei lavoratori “per dare diritti al lavoro subalterno, precario e autonomo, per estenderli e riconoscerli a tutti” deve essere completato da vari referendum di democrazia di base come quello che dovrebbe ripristinare una nuova dignità all’articolo 18. È coerente con questo punto di vista il fatto che la Cgil é dello stesso parere della sentenza del Tribunale che critica che l’abrogazione della tutela del licenziamento dovrebbe valere anche per i dipendenti statali. Se no, sarebbe ingiusto. In fin dei conti il sindicato è contro tutte le ingiustizie. Ma dato che la riforma Madia vuole introdurre in ogni caso la possibilità di licenziamento per i dipendenti statali, anche questa radicale opposizione sindacale non avrà alcun significato.

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