GegenStandpunkt

Mercato mondiale e potenza mondiale –
La società civile globalizzata e la sua cultura di guerra anti-terrore

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A.
La concorrenza delle nazioni per la ricchezza del mondo

Per la ricchezza capitalistica concorrono i suoi proprietari e manager agendo secondo la logica assurda dell’economia di mercato e in conformità alle prescrizioni e alle licenze dei loro legislatori nazionali e tutori politici. Quest’ultimi puntano a loro volta su un successo complessivo dell’economia da loro governata: su una riuscita accumulazione del capitale in generale e su bilanci positivi dei propri affari internazionali in particolare. Lo fanno, perché da tali successi dipende la potenza e l’influenza della loro comunità statale. Di conseguenza un dominio statale moderno non solo registra i risultati concorrenziali che i suoi esportatori, importatori e multinazionali realizzano, ma concorre con gli strumenti del potere statuale contro i suoi pari per un vantaggio economico nazionale.

I.
“Il Sistema economico nazionale” e i suoi mezzi di successo affermati

CAPITOLO 1
Il lavoro redditizio come mezzo di arricchimento privato: la base economica della potenza imperialistica

Un popolo moderno ha bisogno di lavoro. Non in quel senso banale che comunque occorre accettare qualche fatica per soddisfare il fabbisogno della società, sia riguardante i mezzi di vita e di godimento che i corrispondenti mezzi di produzione. Se si trattasse solo di questo, se dunque regnasse un materialismo secondo cui si pianifica ragionevolmente, il dispendio di forza-lavoro non sarebbe nient’altro che un mezzo per raggiungere questo scopo e verrebbe speso col fine di ridurlo il più possibile per conquistarsi del tempo di vita disponibile da dedicare ad attività scelte in maniera libera. Ma rapporti così semplici tra mezzo e fine non esistono nell’economia di mercato.

Nell’economia di mercato un Paese si trova in una situazione economicamente bene, soltanto se la sua popolazione si presenta, preferibilmente al completo, ogni giorno dalla mattina alla sera o in continuo turno alternato, dalla tarda gioventù fino all’età avanzata negli uffici, nelle fabbriche o in altri posti di lavoro, fissi o mobili. In questo sistema i popoli non lavorano a causa di una mancanza di beni utili, la quale si eliminerebbe coll’impiego sensato di lavoro e macchine; anzi, si trovano nella miseria proprio quando, in faccia a scaffali strapieni nei grandi magazzini del mondo, di lavoro non c’è ne.

La logica immanente di questa follia è così familiare a tutti gli individui moderni ed illuminati che della follia stessa, dell’inversione assurda di scopo e mezzo, non se ne accorge più nessuno. Questa situazione assurda non dà neanche granché nell’occhio quando, siano i sindacalisti progressivi o i presidenti americani oppure anche italiani, chiedono per l’ennesima volta, di “sviluppare nuove merci” e di “risvegliare nuovi desideri” per creare, — addirittura! —, “lavoro”.[ 1 ]

Perfino i bisogni stessi, che si soddisfanno con prodotti di lavoro, — non importa, se siano i naturali e necessari fabbisogni di vita oppure i fabbisogni sviluppati con tanta arte dalla e nella società, — rappresentano nel mondo dell’economia di mercato solo dei mezzi per arrivare al fine; e a quale fine? Al fine di guadagnarsi del denaro per mezzo del lavoro. Con questo “fine naturale” il dispendio di lavoro ed il ricavo di denaro coincidono in modo così totale che una società intessuta nell’economia di mercato sviluppa seriamente un bisogno generale di creare e avere lavoro. Ciò succede proprio, e ognuno lo sa e lo ritiene assurdamente del tutto normale, perché l’equazione imperante di ‘lavoro’ uguale a ‘guadagnarsi denaro’ contiene due significati opposti in modo complementare che dividono la società economico-politicamente in classe.

La massa ha bisogno di qualcuno, cioè un “datore di lavoro” fornito di denaro, che la paga per il lavoro prestato. A rigore di termini non ha bisogno di lavoro, ma della retribuzione di esso. Essendo però ”lavoratore dipendente“, l’uomo da sè non dispone nemmeno della possibilità di lavorare e di chiedere soldi per il suo lavoro. È dipendente nel senso che ha bisogno di un imprenditore che gli dia qualche lavoro: l’opportunità stessa, di lavorare per guadagnarsi soldi, sottosta al potere dispositivo altrui e rimane, come elementare, ma indisponibile bene di consumo, fuori portata del lavoratore dipendente. Così la necessità di avere lavoro per poter vivere rende il lavoro stesso un bisogno economico elementare. Se poi una persona resa in tale modo „non autonoma“ è così fortunata di trovare un posto di lavoro, l’equazione lavoro uguale a denaro continua a manifestare i suoi effetti: la sola opportunità di aumentare il proprio stipendio è legata a più sforzo e fatica e a un orario lavorativo prolungato; e neanche quest’opportunità è un mezzo disponibile al lavoratore. È un’offerta che non solo arriva dalla parte avversa nei casi in cui essa ne ha bisogno; il lavoratore deve addirittura richiederla come se fosse suo bisogno personale.

Questa ‚parte avversa’ ha a sua volta bisogno di lavoro altrui, di una fanteria pronta ad essere assunta. I capitalisti non hanno bisogno di questa gente per soddisfare in cambio dei loro soldi un qualche desiderio particolare, ma perché gli serve come fonte di denaro: come fonte di proprietà nuovamente generata sotto forma di merce di qualsiasi genere, con la cui vendita si ricava denaro. Anche la “parte avversa” ha bisogno di lavoro; e questo bisogno è tanto condizionato quanto smisurato. La condizione richiesta è una proporzione tra la paga per il lavoro e il ricavo pecuniario proveniente dal lavoro che arricchisce il ‘datore di lavoro’; e questo non solo in linea di principio e in qualsiasi misura, ma in tale misura che lui riesca ad affermarsi tra i suoi pari, sul “mercato”, e quindi contro i suoi concorrenti con delle “offerte speciali” di buon mercato.

A tale riguardo il capitalista calcola il lavoro come un mezzo per arrivare al fine, cioè come un dispendio necessario. Non si tratta certamente di un dispendio di tempo e di fatica, ma di un dispendio di denaro che bisogna pagare ad altre persone, per ricavare un massimo di profitto dal loro lavoro. Questo calcolo impone parsimonia in un senso doppio: a buon mercato dev’essere la quantità di lavoro di cui si ha bisogno, dunque dev’essere basso il salario pro tempo lavorativo disponibile; ed altrettanto dev’essere bassa la quantità di lavoro spesa in relazione al prodotto vendibile; o viceversa, ogni ora di lavoro deve produrre un massimo di ‘output’ monetario. Quindi è estremamente ‚dispendiosa’ questa parsimonia riguardante il dispendio sia di fatica, sia di tempo lavoro, sia anche di quantità di lavoro spesa in un determinato tempo, dunque di rendimento da parte dei ‚dipendenti’; allo stesso tempo questa parsimonia è un disprezzo del salario da cui vive la forza lavoro. L’applicazione contemporanea di tutti e due i criteri rendono il lavoro redditizio; ed è questa la condizione indispensabile, ma anche l’unica condizione che il lavoro deve soddisfare per servire all’”economia” come suo mezzo e per essere, di conseguenza, richiesto da essa: il bisogno dell’economia capitalistica di disporre di lavoro redditizio va letteralmente ‘oltre ogni misura’.

Questo bisogno di lavoro redditizio non conosce nessun limite: per arrivare al comando di un massimo di lavoro redditizio sempre più grande infuria la lotta concorrenziale delle imprese; l’impiego di sempre più lavoro redditizio, esso stesso, è lo scopo economico della società. Questo bisogno di lavoro redditizio senza limiti acuisce, a sua volta, gli sforzi dei protagonisti della libera economia di mercato, in concorrenza l’uno contro l’altro, per arrivare a delle restrizioni sempre più dure rispetto al pagamento del lavoro e rispetto alla quantità di lavoro impiegato. In somma questo bisogno di lavoro redditizio acuisce gli sforzi per arrivare ad un minimo sempre più piccolo di lavoro in genere, in relazione al valore monetario creato con esso e in relazione alla retribuzione del lavoro da pagare: questa è l’arma per antonomasia della concorrenza per la ricchezza capitalistica, una ricchezza che ha la sua fonte nel lavoro redditizio e il suo metro nella quantità di quest’ultimo.

Il carattere paradossale di questa lotta di concorrenza si fa sentire “naturalmente” in modo del tutto diverso per l’una e l’altra parte, che, nell’idillio dell’economia di mercato, hanno sul serio bisogno di lavoro. La stragrande maggioranza della società, i dipendenti salariati, sono esposti con il loro orario di lavoro, con la loro capacità produttiva e con il salario che guadagnano, alla doppia costrizione materiale della rentabilità. Di conseguenza non si potranno mai, tramite il progresso capitalistico, sbarazzare della loro fatica e dei lunghi orari lavorativi. Tanto meno diventeranno abbastanza ricchi da poter riscattarsi da questa costrizione. Al contrario, l’economia capitalistica, col suo progresso nell’ “economizzare il lavoro” fa sì che il bisogno dei “dipendenti” di un posto di lavoro non viene mai soddisfatto in una misura bastante, sia che le imprese di successo realizzino i loro successi competitivi con maestranze ridotte, sia che le imprese perdenti riescano ad uno sfruttamento redditizio solo in misura ridotta oppure non ci arrivino neanche più, così che della loro attività economica non rimane altro che una maestranza senza lavoro. Così all’economia nel suo complesso rimane in questo modo sempre, anche con una crescita riuscita, una riserva di forza-lavoro disponibile, dalle cui file può sempre saziare la sua fame di lavoro a buon mercato.

La crescita economica delle imprese, — che unisce in modo così redditizio l’utilizzo condizionato del lavoro e la smisuratezza di bisogno di lavoro, — crea però da sé un limite di crescita economica di carattere assurdo: nella loro caccia infinita al denaro le imprese capitalistiche producono continuamente più merce vendibile di quella che si riesce realmente a vendere — tanto più se si pensa alla quantità estremamente ristretta del denaro che i dipendenti, nella loro qualità di consumatori finali, sono in grado di spendere.

Le pretese dei datori di lavoro, di guadagnarsi, — con l’impiego smisurato di lavoro reso sempre più redditizio, — sempre più denaro, superano la quantità di denaro che in totale si potrebbe guadagnare sui loro mercati; addirittura questo fatto dà alla loro lotta di concorrenza la sua ben nota durezza. E questo lo pagano non soltanto le imprese con i posti di lavoro che sono i meno redditizi con il loro fallimento, ma periodicamente l’intera economia soffre di questo “fatto” e non può evitare, nel caso di una crisi economica, una generale distruzione di ricchezza: per poi continuare con la stessa follia.

CAPITOLO 2

Le nazioni imperialistiche: incondizionatamente e nel proprio interesse si fanno protagoniste della volontà dei privati di arricchirsi. Sono fermamente decise di rendere disponibile alla loro base economica non solo la propria società, ma l’intero mondo

A tali suoi rapporti e condizioni capitalistiche lo Stato moderno si dedica impiegando tutto il suo potere legislativo ed esecutivo. Il fatto che tutto ciò sia opera sua e che sia lo Stato stesso a sottomettere i suoi soggetti di diritto a queste “condizioni date”, il fatto che la sua economia politica nel suo complesso è una cosa violenta, questo fatto però non lo ammetterebbe mai nessun politico responsabile. Chi, in una ‘comunità occidentale liberale’, porta “responsabilità” non ci trova niente di strano nell’inguainare l’esistenza dei cittadini in un rigido corsetto di norme, le quali rendono il ‘lavorare per il denaro’ l’unico fine di vita e l’unico mezzo di vita per la società moderna e i suoi membri. Questo si ritiene al contrario un servizio che i governanti devono ai loro sudditi autoresponsabili; un servizio che deriva dalla costrizione dei responsabili di accogliere le oggettive necessità della vigente economia di mercato, perché altrimenti quest’economia di certo non funzionerebbe. E l’uomo moderno, nella sua misera dipendenza, ha almeno il diritto al funzionamento di questa economia per antonomasia.

Così la politica moderna si assume il compito di soddisfare quel bisogno fondamentale della società che è il lavoro e che si distribuisce in modo tanto antagonistico su due classi. E lo fa davvero in modo appropriato. Agli imprenditori che, in virtù della loro proprietà protetta dalla legge, dispongono della licenza di usare e sfruttare il lavoro in questa società, la politica dà una mano con un catalogo di disposizioni, norme e aiuti continuamente perfezionato e attualizzato affinché l’uso del potere di comando privato per sfruttare i fonti della ricchezza dell’economia di mercato diventi il più redditizio possibile.

Dato il fatto che l’anarchia dell’universale lotta di concorrenza dei proprietari capitalistici non si potrà mai regolare a piena soddisfazione dei tutti i rispettivi usufruttuari, questo certamente non è un compito facile da sbrigare. I politici responsabili però vengono di certo a capo di questo problema, e cioè che si trova sempre qualche capitalista che critica la loro tutela per una proficua crescita di capitale come “privazione di libertà personale” e “violazione della proprietà” e pretende, contemporaneamente, più attività riformatrice nell’interesse del raziocinio economico: i politici inseriscono semplicemente le contraddittorie necessità e pretese degli imprenditori nella loro concorrenza dei partiti. Del resto, i politici non si possono mai sbagliare granché se si attengono alla linea generale di ogni partito democratico. Primo: sotto il comando e per il vantaggio dell’imprenditoria nazionale, c’è bisogno di lavoro che rende. Secondo, di questo lavoro, di lavoro redditizio ci vuole sempre di più e, terzo: ce n’è mai abbastanza.

Una politica economica appropriata, impegnandosi con energia per tale scopo, non solo accoglie la sua responsabilità per la “base dell’economica di mercato”, l’imprenditoria, ma accoglie anche il bisogno e il diritto morale delle masse di essere “occupate”: il moderno Stato classista dà piena ragione al desiderio di un posto di lavoro. Resta però anche assolutamente fedele al suo principio che questo bene alto sia nelle mani di una minoranza di “datori di lavoro”.

Attenendosi strettamente a questo punto di vista lo Stato promuove la generale disponibilità dei lavoratori attivi, ma particolarmente dei disoccupati, di accontentarsi, per assicurarsi un posto di lavoro, di una vita più misera e di aumentare la propria disponibilità lavorativa e la loro volontà di rendimento. In questo modo i potenti servono la loro ‘comunità liberale’ e contemporaneamente non perdono d’occhio la base materiale del loro dominio. Questa base materiale consiste, di fatto, in nient’altro che nel denaro, — nel potere “oggettivato” sull’intero mondo delle merci dell’economia di mercato e sul lavoro il quale produce tali merci — denaro, che viene “prodotto” sotto la direzione di datori di lavoro competitivi in posti di lavoro redditizi e che viene accumulato da proprietari capitalistici.

Attenendosi a questo punto di partenza e, di conseguenza, essendo assolutamente “egoistico” e perciò ancora più incondizionato amico e fautore della crescita economica, — cioè come fautore dell’infinito sforzo della sua classe di proprietari di arricchirsi, — lo Stato scopre una mancanza assolutamente decisiva, sia relativo al suo territorio che alla propria gente, ambedue resi disponibili allo scopo di tale arricchimento: il suo dominio territoriale, per quanto sempre sia ampio e sconfinato, è di principio troppo piccolo per l’impulso espansionistico del suo oggetto di tutela, del “suo” capitale.

La solvibilità della società, che non ha altro fine che trasformare i prodotti del lavoro sociale in ricchezza reale, — vale a dire in ricchezza astratta, cioè denaro, — è limitata alla solvibilità dei propri cittadini; e il potere d’acquisto di questi ultimi ulteriormente dal fatto che la maggioranza, i lavoratori dipendente, dispone di questo potere soltanto nei limiti di un salario definito da criteri di rentabilità. Tale limite contraddice definitivamente alle necessità fondamentali della crescita monetaria capitalistica, indipendentemente dalla questione e al di là di essa, se sono già soddisfatte, da un lato, almeno le necessità elementari della “propria gente” e quali bisogni, d’altro lato, addirittura vengono inventati e svegliati per fare soldi con merci e servizi stravaganti; indipendentemente anche dalla questione, se e quanti produttori e grandi magazzini veramente riescano a vendere le loro offerte oppure no.

Lo stesso vale per le risorse naturali di cui l’economia di una nazione ha bisogno per la sua crescita e che consuma: quelle che si trovano all’interno del territorio statale in ogni caso sono risorse finite e perciò sono in linea di principio, e forse attualmente in particolare, un limite per la ricchezza in accumulazione.

E anche se il mercato di lavoro nazionale è contraddistinto da abbondanza di disoccupati, le potenze della crescita, che gli imprenditori sviluppano e devono dispiegare, di principio superano la scorta di forza lavoro del territorio; anche sotto tale aspetto i limiti territoriali della potenza di uno Stato nazionale sono incompatibili con lo smisurato impulso espansionistico del capitale. Di conseguenza i politici responsabili fanno del tutto per fare “permeabili” le frontiere della propria comunità, dunque dei loro vicini e, in generale, tutte le frontiere di questo mondo per la privata potenza appropriatrice del capitale attivo nel proprio territorio.

Una potenza statale consapevole del fondamento del suo potere nell’economia di mercato rende possibile ai suoi mercanti l’assalto alle risorse naturali del mondo estero: cioè a materie prime di cui c’è carenza nel proprio Paese o che sarebbero da estrarre soltanto con costi alti, come anche ai prodotti agricoli di altre zone climatiche o di paesi, dove si possano produrre tali prodotti a costi più bassi che nel proprio Paese.

Rispetto a tali “risorse naturali” all’inizio della storia del capitalismo si è fatta strada il più pazzesco bisogno “naturale” di questo modo di produzione. Intere nazioni hanno lottato, senza curarsi anche di proprie perdite, per la conquista della posizione di fornitore del metallo nobile, dell’oro. Non perché l’oro fosse stato utile per un qualsiasi bisogno materiale o perché fosse stato indispensabile come mezzo di produzione, ma perché l’oro, in virtù di violenza e di tradizione, rappresenta in se stesso, come materiale, il potere della proprietà su tutte le cose utili e la loro produzione. Lo rappresenta come “feticcio” del mondo borghese, che incarna il suo economico rapporto di forza letteralmente in unità di peso.

Il vantaggio proveniente da queste grandi scorrerie non lo accumularono i rapaci signori coloniali; e questo è stato interamente conforme alla particolarità del loro bottino. Per essi fu solo mezzo di pagamento — corse fuori dalle loro mani con le ricchezze materiali cui ebbero accesso con il loro metallo nobile. Il vantaggio invece lo accumularono i mercanti, che quest’oro se lo sono guadagnato: che l’hanno usato come base di credito e il credito come capitale, e che, in questo modo, hanno dato slancio al loro arricchimento secondo le regole del mercato approfittando del lavoro e dei prodotti di lavoro redditizio. Le nazioni che in questo modo, non tramite il furto di merce denaro, ma tramite il suo uso economico adeguato al modo di produzione capitalistico, sono diventate centri di accumulazione del capitale, queste nazioni hanno sviluppato, nei loro sforzi di appropriarsi dei mezzi di arricchimento capitalistico che si trovano sotto sovranità straniera, da lungo dei bisogni più pretenziosi. Oggigiorno lottano, tenacemente e accanitamente, per fonti di materie prime per la loro industria e particolarmente per la sicura disponibilità di naturali portatori d’energia che, nell’economia di mercato, con il loro prezzo fanno parte di ogni calcolo dei costi e così condecidono sulle potenze di crescita delle nazioni.

Delle materie prime a costi contenuti provenienti da tutto il mondo, che tengono bassi per le imprese i costi di materiale e di energia, sono importanti in maniera decisiva per una ragione anch’essa essenzialmente capitalistica: non perché sono di necessità per un qualsiasi rifornimento nazionale, ma perché i capitalisti oggigiorno concorrono, con i prezzi delle loro merci, sempre su scala mondiale. Lo Stato moderno cosmopolitico, infatti, fa di tutto per aprire ai suoi capitalisti degli sbocchi esteri, dove possono far valere il loro comando sul lavoro da essi fatto redditizio contro concorrenti locali e, su questa base, guadagnarsi valuta straniera. In questa materia il progresso degli Stati capitalistici negli ultimi decenni è stato davvero eccezionale.

Viceversa lo Stato rende accessibile per capitalisti stranieri il proprio territorio sovrano come mercato, espone l’imprenditoria del Paese alla loro concorrenza, rischia, con ciò, per il proprio Paese, il deflusso di ricchezza già realizzata della sua economia, cioè di denaro. Perciò non può eludere il fatto di dover confrontare criticamente l’ammontare dei costi per il mondo di affari attivo sul proprio territorio relativo all’ammontare dei costi altrove nel mondo.

Di certo, per una potenza borghese moderna la priorità sta in ogni caso nell’eliminazione del limite per la crescita dell’economia nazionale rappresentato dalla ristrettezza del mercato nazionale; questo mercato è e rimane per principio troppo piccolo per il suo smisurato bisogno di profitto proveniente da lavoro redditizio. Però su questa base come condizione fissa non finiscono i calcoli critici di vantaggio/svantaggio, ma essi cominciano ad avere la loro importanza crescente. Tali calcoli naturalmente non riguardano soltanto il prezzo di materie prime importate, ma i rapporti di concorrenza nel loro complesso. Alle imprese straniere con rentabilià e potenza di crescita superiori, viene resa difficile — con dazi di difesa, con contingentamento e altre restrizioni, — la conquista del mercato nazionale ai danni dei propri imprenditori; qualche volta gli viene anche impedito l’accesso. Viceversa le nazioni pretendono reciprocamente la loro sottomissione alle strategie di concorrenza delle proprie imprese, strategie con cui esse cercano di conquistarsi mercati stranieri. Sotto la premessa che in ogni caso si deve guadagnare denaro al di qua e al di là delle frontiere nazionali gli internazionalisti regnanti dell’economia di mercato combinano libero scambio e protezionismo. Così sono riusciti a creare quel mercato mondiale di oggigiorno che, con il suo straripante fiume di merci e con la concorrenza sul denaro del mondo, condotta spietatamente per mezzo delle merci, non risparmia più nessun angolo della Terra.

Questa concorrenza globale per il comando su una massima quantità di lavoro redditizio, di ‘lavoro che produce denaro’, gli imprenditori la conducono con la lotta sul lavoro più redditizio; perciò essi non si limitano al solo commercio: per lo scopo di dominare i mercati su scala mondiale gli imprenditori presentano alle proprie nazioni il loro interesse, di “creare” lavoro ovunque si dà l’occasione di sfruttare in modo redditizio questo fattore di produzione per vincere la concorrenza straniera. Lo Stato, quel moderno sovrano cosmopolitico, comprende benissimo anche questo bisogno, e, nell’aspettativa che l’arricchimento degli imprenditori della propria nazione, non importa neanche dove, immancabilmente dovrà servire alla crescita economica nazionale, lo Stato anche concede, in linea di principio, ai suoi datori di lavoro il diritto di andare con il loro profittabile potere di comando “fuori casa” e di servirsi di forza lavoro a buon mercato, anche in Sistemi economici nazionali stranieri.

Viceversa lo Stato invita le imprese straniere, a “stabilirsi sul territorio nazionale” e a soddisfare su questo territorio il loro bisogno di lavoro. Soddisfarebbero così contemporaneamente il bisogno elementare delle masse del luogo, il loro bisogno di “aver lavoro”, e, soprattutto, soddisfarebbero il bisogno dello Stato in merito: il suo bisogno di disporre di lavoro redditizio in una quantità mai abbastanza grande. L’aspettativa di un vantaggio nazionale immancabile certamente non si realizza in ogni caso; anche non può realizzarsi già a causa del fatto che le strategie delle imprese e le manovre degli Stati interessati, e quelli potenzialmente danneggiati, continuamente s’intralciano. Però fino ad oggi tutte le esperienze cattive non hanno condotto a una proclamazione: “fine della partita”, ma a diversi progressi e nuove conquiste di una politica per il Sistema economico nazionale capitalista.

CAPITOLO 3

La mobilitazione del Sistema economico nazionale” delle grandi nazioni per il mercato mondiale le “costringe” a insistere nel funzionamento del mercato mondiale, cioè a volere l’assoluta partecipazione di tutte le nazioni alla concorrenza internazionale: il capitalismo moderno o funziona come affare internazionale o non funziona

Dalla concorrenza globale, a cui gli Stati moderni autorizzano e persino forzano i “loro” imprenditori, essi stessi traggono una conclusione pratica: si considerano costretti — anche senza averne la necessità a causa di bilanci negativi derivanti dagli affari con l’estero — a promuovere, per quanto in proprio potere, la potenza concorrenziale della loro imprenditoria nazionale e a rendere le condizioni d’affari nel proprio Paese il più attraente possibile. Per questo scopo esaminano con occhio critico e riformano tutte le premesse che si oppongono nei loro Paesi all’uso sfruttatorio del lavoro sociale; e lo fanno anche con tutti i loro mezzi di sostegno economico, con cui per ragioni d’ufficio promuovono questo scopo, sotto il punto di vista cosa valgono come armi nella e per la concorrenza internazionale. È questo il punto di vista da cui gli Stati moderni rivolgono la loro attenzione al fattore lavoro: da un lato si occupano e preoccupano del livello salariale nazionale, compresi i costi per “il sociale”, e, dall’altro lato, dell’utilità del fattore lavoro in riguardo alla sua ‘conformità ai tempi d’oggi’, e, di conseguenza, di una formazione generale e specifica, della sanità popolare, della morale, della volontà e della capacità di farsi utili per la crescita nazionale ecc. Contemporaneamente però focalizzano la loro attenzione all’obiettivo di non superare i costi previsti per tutte queste “voci sociali”. Certo che tutto ciò appartiene in ogni caso al catalogo dei compiti di un governo responsabile in una comunità statale classista; i responsabili deducono però volentieri dalla costrizione materiale autocreata “dei mercati”, oppure “della concorrenza internazionale”, la “sfida di fare una politica più dura”. Davanti alle vittime della loro politica, la cui vita diviene così sempre più precaria, si riferiscono in maniera offensiva alla propria impotenza in faccia ad una concorrenza estera che dev’essere potentemente tenuta in scacco. Riguardo alle spese per l’infrastruttura e il progresso tecnologico nell’ampio campo di prodotti e modi di produzione “innovativi”, del traffico delle merci, della comunicazione, della circolazione, del denaro ecc. i politici sono però generosi. Sì che così immancabilmente incidono ancora sull’economia, cercando di non fare altro che promuovere la sua competitività mondiale. Da qualche fonte però i soldi devono pur venire, che in fin dei conti non si “creano” neanche con la più grande parsimonia nel settore “sociale”. Con l’arte della creazione del credito statale questa contraddizione si lascia certamente mitigare; anzi, si lascia addirittura trasformare in una fonte di soldi per gente danarosa. Inoltre un governo moderno sa aiutare le imprese importanti ad acquistare una grandezza industriale e/o finanziaria che permette a esse, nonostante le tasse che devono pagare, di approfittare delle offerte statali riguardanti l’utilizzo redditizio del lavoro della società e di arrivare a una potenza concorrenziale “convincente” anche a livello mondiale.

Così il potere statale mobilizza in modo risoluto l’economia nazionale per la conquista del mercato mondiale. Ciò ha le sue conseguenze. Ne segue la necessità d’insistere ancora più energicamente in un mercato mondiale funzionante. Tutte le nazioni devono esporre la loro economia alla concorrenza internazionale e questo irrevocabilmente e senza riserva. Infine proprio gli Stati capitalisti di maggior successo, — i cui imprenditori guadagnano soldi in tutto il mondo e con ciò fanno crescere la ricchezza nazionale, — sono dipendenti in modo esistenziale dal fatto che le loro multinazionali abbiano accesso al denaro delle altre nazioni, e precisamente di tutte le altre nazioni: l’accumulazione di capitale in questi paesi è “globalizzata”. A seconda la loro potenza economica e la quantità dei loro mezzi economici hanno bisogno del mercato mondiale perfetto per arrivare al loro successo. E permanentemente va provveduto che funzioni così. Perché una cosa è certa: la sempre rinnovata “Buona Novella” della crescita universale che si avrebbe grazie a un commercio libero è una parola vuota che incensa il successo delle nazioni economicamente più forti. Ignora le vittime che la lotta di concorrenza globale produce anche tra i suoi protagonisti, cioè tra gli attori della lotta di sopravvivenza delle nazioni capitalistiche. Di certo non c’è mancanza di presunte influenze reciproche miracolose del capitalismo mondiale. Una volta le nazioni stesse, con le loro attività sul mercato mondiale, fanno reciprocamente crescere l’accumulazione, dalla quale “poi” tutti quanti traggono profitto. Un altra volta tutte le nazioni approfittano della crescita a cui danno inizio, non a casa loro, ma presso i loro partner di commercio all’estero. Tali “verità economiche” l’economia mondiale non le realizza però nemmeno in fasi di generale crescita economica su scala mondiale. Gli affari delle diverse nazioni cui la nazionale sfera d’affari offre troppo poche possibilità d’espansione e che perciò si estendono nei mercati dei loro concorrenti esteri, contestano il successo di questi ultimi, con la conseguenza che certamente non espandono contemporaneamente e proficuamente entrambi, quando tra di loro cadono le frontiere. Oppure detto in altre parole: le sfere d’affari delle diverse nazioni che, ciascuna da sé, è troppo piccola per l’affare nazionale, non diventano più grandi, se solo l’una sfera d’affari si espande dalla sua base nazionale nelle economie nazionali della concorrenza e viceversa. Il fatto che gli imprenditori di un Paese traggono profitto dalla crescita di un altro Paese e allo stesso tempo contribuiscono a tale crescita, ha sempre come rovescio della medaglia che contendono la crescita ai loro concorrenti; e i rispettivi danni nei bilanci nazionali non si fanno attendere. Perciò si devono prendere provvedimenti per le nazioni, che, temporaneamente o durevolmente, sono i perdenti della concorrenza sulla ricchezza capitalistica e sulle potenzialità della crescita, e cioè bisogna provvedere che essi non si detraggano “troppo” dalla libertà di dover concorrere su scala mondiale. D’altra parte deve essere anche garantito che i vincitori non sfruttino „troppo“ la loro potenza sul mercato: il capitalismo moderno o continua come affare mondiale, o non continuerà.

Di conseguenza non c’è mancanza di “lavoro” per politici illuminati, che sono tutti protagonisti incondizionati del loro Sistema economico nazionale.

CAPITOLO 4

Assicurare la disponibilità di un mercato mondiale aperto e la conservazione della sua gerarchia di poteri economici: questo è per le grandi nazioni un programma infinito

I capi delle grandi potenze capitalistiche, dopo due guerre mondiali per la ripartizione del mondo, hanno “capito” a modo loro, cioè in modo pragmatico, — o meglio hanno aderito, per necessità, alla logica capitalistica americana — che per una crescita bastantemente illimitata del capitale non sono “sufficienti” delle sfere d’affari delimitate e monopolizzate con la forza, ma è necessaria una garantita libertà di circolazione di merci e denaro su scala mondiale, una libertà generale di appropriazione capitalistica rispetto a mercati, a risorse e a forza-lavoro ovunque nel mondo. Per arrivare a ciò non è sufficiente sfruttare la propria potenza concorrenziale superiore sul piano bilaterale e incassare profitti: per servirsi affidabilmente e durevolmente dei partner commerciali come fonte di denaro e sfera di espansione del proprio capitalismo, le nazioni determinanti a livello mondiale devono farsi reciprocamente e anche al resto del mondo delle offerte; devono dare agli altri delle possibilità di fare soldi e offrire la prospettiva di contribuire da parte loro alla crescita dei loro Paesi partner.

Soltanto in questo modo si riesce a creare delle dipendenze difficilmente revocabili da parte dei contraenti in caso di bilanci negativi, dipendenze che permettono di minacciare il partner con il ritiro di licenze e di ottenere l’impatto desiderato con il rifiuto di occasioni d’affari. Sono stati gli americani che nei decenni della guerra fredda sono arrivati, con la loro alleanza con gli europei, ai progressi decisivi in questa direzione: il patto atlantico fu, già nella sua intenzione, non soltanto un’alleanza di guerra anti-sovietica, ma anche un blocco capitalistico, vincolato al “dominio del diritto” — con l’intera economia politica della proprietà privata come contenuto di quel diritto — e obbligato alla cooperazione economica e alla promozione reciproca.

La concorrenza delle nazioni determinati nel campo dell’economia mondiale fu sprigionata, contemporaneamente sottomessa alla norma di rafforzare tutti i partner dell’alleanza nei confronti del comune nemico dell’Est e assegnata all’impulso espansionistico del capitale; naturalmente in particolare all’espansionismo del capitale americano i cui risultati monetari e materiali dovevano creare e assicurare all’alleanza la sua base materiale. Così si diede inizio a un processo di concorrenza regolato in modo multilaterale; dapprima tra le più importanti nazioni capitalistiche; poi anche con i membri, a poco a poco resi autonomi, dei loro imperi coloniali e infine su scala mondiale. Alla fin fine sono stati involti in questo processo persino i Paesi del blocco socialistico. Si diede così inizio a un’anarchia dei mercati fermamente concordata e regolata a livello sopranazionale, come “quadro ordinatore” per un braccio di ferro politico-economico, in cui il successo dei concorrenti più forti era quasi metodicamente prestabilito.

Spinta avanti in questa maniera, la dipendenza reciproca tra concorrenti con differenti potenze economiche ha dato in mano ai più forti dei puntelli e delle leve per acquistare un’influenza decisiva sulla politica commerciale ed economica dei partner più deboli; un’influenza che da lungo non punta solo più al ricatto della controparte per concessioni calcolate, ma alla determinazione della ragione di Stato del contraente riguardo ai suoi scopi politico-economici.

Partendo dal principio della „nazione più favorita” — cioè dalla non-esclusività di riduzioni delle tariffe doganali sul commercio di carattere bilaterale — è stato sviluppato un regolamento generale e con l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) è stato istituzionalizzato un elenco di diritti d’intervento e di obblighi di buona condotta, che conferiscono a un sistema di ricatto internazionale molto efficace e abbastanza unilaterale l’apparenza e perfino il carattere di un grande “consiglio comune”, mirante all’intesa e alla regressione dei conflitti, cioè il carattere di una permanente consultazione comune con il fine di decisioni pacifiche ed equilibrate sul progresso del welfare generale per mezzo della libertà del commercio mondiale.

Nell’ambito di questo sistema le nazioni dell’Europa occidentale hanno avviato il progetto di sottomettere la loro partnership concorrenziale e la loro influenza reciproca a una regia politica comune. Con delle imprese che in un grande mercato interno arrivano a un nuovo livello di estensione e con un’amministrazione parzialmente condotta in comune fanno concorrenza allo strapotente capitalismo americano: sia nella lotta di concorrenza immediata riguardo alla concentrazione di lavoro redditizio sul proprio territorio sia nell’accesso a mercati, risorse e opportunità di sfruttamento in Paesi terzi.

Nella lotta permanente che si svolge intorno a „regole giuste“ per “la libertà degli affari mondiali” l’Europa si presenta come potenza economica collettiva; e dalla comune potenza concorrenziale consegue per i protagonisti principali d’Europa quasi automaticamente il programma di non solo dettare nel rapporto con il mondo esterno, con i concorrenti, le regole adatte al proprio affare, ma anche di occuparsi militarmente della sicurezza in tutto il mondo…

Il risultato di questa politica commerciale mondiale degli ultimi decenni non è soltanto un enorme accrescimento della circolazione mondiale di merci e denaro. Le nazioni che partecipano al commercio mondiale, e nel frattempo lo fanno tutte, sono arrivate economicamente, — con l’accumulazione di successi e fallimenti concorrenziali in diverse parti (questa è la vera sostanza politico-economica del commercio mondiale esplodente) — e con “l’assistenza politica” in tutti quei casi in cui si sono manifestati immancabili contrasti, — a uno status, cioè lo stato complessivo del loro capitalismo nazionale. Questo status definisce la loro importanza in un sistema di condizioni di utilizzo e di dipendenze reciproche e la loro posizione in una gerarchia piuttosto stabile delle potenze commerciali.

Gli Stati Uniti, l’Unione europea e il Giappone, con la sua sfera d’influenza nell’area dell’Ovest pacifico: queste sono le potenze commerciali mondiali determinanti. Essi fungono reciprocamente da mercati decisivi, su cui si può guadagnare denaro in grande stile e su cui, di conseguenza, si deve vincere la concorrenza. Questo, inversamente, vuol dire: le loro multinazionali si fanno concorrenza su scala mondiale. Con la loro potenza concorrenziale impongono le misure del lavoro redditizio e dei buoni affari e continuano ad alzarle sempre di più. E sotto questi criteri esaminano e, all’occorrenza, usano le altre nazioni come Standort, come piazza economica, e ammassano nei propri Standort le potenze di crescita del capitalismo globale.

In quanto profittatori della concorrenza mondiale questi tre centri degli affari mondiali mantengono, a dispetto di tutta la loro concorrenza, un consenso basilare sulle condizioni di concorrenza, che impongono, più o meno in comune, al resto del mondo; e finora questo consenso è sufficiente per assicurare quell’anarchia regolata che gli permette di approfittare della loro reciproca concorrenza e di quella contro il resto del mondo.

In questa concorrenza, oltre che tra di loro, le grandi potenze commerciali hanno a che fare con un pugno di Paesi emergenti — mezzo Sudamerica, e mezza Asia orientale: tutte nazioni che si contraddistinguono come interessantissima sfera d’investimento per il capitale. Sotto le vigenti condizioni di concorrenza prestabilite dall’estero, questi Paesi, da un lato, non hanno assolutamente bisogno di nient’altro che di capitale, dall’altro lato hanno da offrire a questo capitale delle condizioni di crescita indubbiamente utilizzabili. In primo luogo forza-lavoro a buon mercato, disponibile in modo redditizio, in secondo luogo dei rapporti di classe abbastanza funzionanti sotto un controllo statale abbastanza attendibile. Inoltre hanno da offrire un’infrastruttura che il moderno mondo affaristico pretende per la sua comodità e di cui ne ha bisogno. E, in prospettiva, dispongono di un mercato interessante con della clientela pubblica e privata che offre qualche opportunità per fare buoni soldi. L’etichetta „Paese emergente”, uguale all’inglese „emerging market“, indica lo status precario tra mancanza di capitale e successo capitalistico di questi Paesi, uno status che per le potenze commerciali mondiali e per le suddette nazioni ha un significato differentissimo: queste ultime cercano di “emergere” ancora nel mercato mondiale e di superare la soglia che le separa da una potenza commerciale mondiale. I Paesi emergenti vogliono arrivare a un’accumulazione di capitale che gli permette di co-decidere l’andamento del commercio mondiale. Vogliono diventare essi stessi il punto di partenza per l’esportazione di capitale, per il corrispondente utilizzo di altre nazioni e per la sottomissione di queste nazioni ai propri interessi economici; ugualmente a ciò che viene già praticato dalle grandi potenze. Le grandi Potenze consolidate del commercio mondiale da parte loro utilizzano le loro possibilità per conservare il vantaggio concorrenziale delle loro multinazionali. Fanno di tutto per impedire a questi nuovi e utili partner d’affari di acquistare una potenza concorrenziale collocata al loro stesso livello. In questo modo cercano di tenerli nello status contradditorio di un mercato redditizio e contemporaneamente nello status di una sfera d’investimento che rimane bisognosa di capitale. Il contrasto inevitabile gira intorno a cose come il libero accesso commerciale dei prodotti agricoli e di largo consumo provenienti dalle nazioni emergenti “quasi industriali”. Le tre più grandi potenze economiche a loro volta combattono per la “protezione della proprietà intellettuale” nei punti chiavi. Agendo così hanno nel mirino il dominio del proprio mondo d’affari nei “loro” “emerging markets“ in tutti i settori elevati della produzione capitalistica di merci e nell’affare in generale.

La maggior parte degli altri Paesi si trova, con la partecipazione al moderno mercato mondiale, collocata nella categoria di fornitori di materie prime. A questi Paesi gli apologeti della ricchezza capitalistica attribuiscono spesso e volentieri una “contraddizione” tra “ricchezze naturali”, come le loro materie prime, le loro condizioni climatiche favorevoli e una natura meravigliosa — e la povertà reale delle masse. In questo contesto tali esperti non vogliono, meno che mai, saperne che la ricchezza nel mondo moderno ha la sua sostanza e il suo metro unicamente nella quantità di lavoro redditizio e in nessun caso in questo o quel materiale naturale o addirittura in una qualche comodità di procurarseli: le materie prime di per sé non costituiscono nessuna ricchezza nello stretto senso capitalistico; secondo l’economia di mercato assumono un loro valore solo nella misura in cui gli imprenditori capitalistici sono disposti, nell’interesse del loro arricchimento, a pagare per esse un qualche prezzo. E per quanto riguarda la miseria, in primo luogo, essa appartiene al concetto di ricchezza capitalistica che è accompagnata in ogni caso dalla miseria nella sua forma moderna e cioè l’esclusione della maggioranza dall’abbondanza dei beni prodotti. In secondo luogo la miseria drastica delle masse dei Paesi definiti politico-economicamente esportatori di materie prime non ha più che mai a che fare con una naturale mancanza di beni, dovuta a una natura rigogliosa. Al contrario è causata dall’esclusione forzata di una sovrappopolazione, dovuta al capitalismo, da una globale economia di denaro, cioè di una massa inutile come forza-lavoro esclusa da montagne di merci esistenti in maniere abbondante ma non disponibili per essa. In realtà già il nome “fornitori di materie prime” con cui sono caratterizzati questi Paesi esprime il fatto che essi, sotto le condizioni vigenti del mercato mondiale, non sono da sé in grado di trasformare la loro ricchezza naturale in qualcosa di utile e che sono sussunti completamente a servizi ausiliari per le potenze economiche produttive capitalistiche.

Intanto si è formata tra questi Paesi un’elite: i Paesi petroliferi guadagnano dei gran soldi con la svendita della ricchezza del sottosuolo. Questi soldi sono però ancora distanti da servire come capitale, come fonte di ricchezza nazionale sotto forma di denaro. Doppiamente e in senso vero e proprio utili dal punto di vista capitalistico questi paesi diventano, in primo luogo, tramite il — detto in modo partitico — “riciclaggio” dei loro “petrodollari”: quando trasferiscono i loro redditi nei centri dell’affare finanziario capitalistico, dove si creano il dollaro, l’euro o lo yen. Oppure, in secondo luogo, quando si riforniscono sul mercato mondiale dei beni di lusso e quando, nello sforzo di diventare “Paesi emergenti” o più, fanno incetta di tutti gli elementi di un completo ciclo di capitale con fabbriche e autostrade. In questo modo “abbelliscono” il lavoro redditizio delle vere “nazioni industriali”.

Il grande resto delle nazioni si suddivide in Paesi, che, con le loro condizioni naturali e grazie a uno scherzo della loro storia coloniale o postcoloniale, hanno trovato una nicchia economica nel mercato mondiale, o come privilegiati fabbricanti di zucchero, sotto il favoritismo dell’Ue per esempio, oppure come meta turistica caribica; e in Paesi per la cui rovina l’Occidente sviluppa attualmente lo status di un „failing“ oppure „failed state“ e a cui rivolge la sua attenzione soltanto sotto il punto di vista cinico di volersi difendere da eventuali minacce come aids, terrorismo, un’”invasione” di extracomunitari, ecc.

CAPITOLO 5

Il potere degli Stati moderni di appropriarsi della ricchezza mondiale si concretizza nel loro denaro, la cui rispettiva potenza è contemporaneamente risultato e strumento della concorrenza fra le nazioni e le separa in modo fondamentale

I successi e gli insuccessi delle nazioni si realizzano — come tutti i risultati di un affare — in forma di denaro: nella massa del denaro guadagnato sul piano nazionale e nel suo utilizzo come mezzo di un’ulteriore crescita economica. La massa e il rendimento del denaro realizzato sono la risposta decisiva dal punto di vista capitalistico ai risultati — positivi e negativi — di una nazione sul campo politico-economico. Sono la manifestazione vigente del suo status di concorrenza e una predecisione delle sue prospettive politico-economiche con la quale sono confrontati nella prassi. E ciò è più che conseguente e giusto. Le nazioni capitalistiche hanno sottomesso il processo di riproduzione della loro società allo scopo di far accrescere il denaro. Hanno dichiarato il verdetto sugli uomini e sulla natura, sulle forze produttive e sugli articoli di consumo, sul lavoro e sulla ricchezza materiale, che tutto deve fungere come fonte di denaro, altrimenti non conta niente. Quest’obbligo si auto-impongono tutti gli Stati del mondo. Ne risulta necessariamente che il destino economico delle nazioni si decide col denaro. L’uso — o il non-uso — del loro denaro come mezzo del suo proprio accrescimento diventa la misura di valore dei padroni di questo denaro, cioè degli Stati. Tramite il loro denaro le nazioni sono confrontate con un bilancio, che fissa la loro posizione nel sistema del capitalismo globale e aggiorna spietatamente questa posizione – nei valori positivi o negativi.

Non c’è dunque da meravigliarsi se un ben preciso settore dell’economia capitalistica — il capitale finanziario e speculativo — si occupa di questo bilancio.


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Anche alcuni comunisti, con il gesto di essere gli unici che sanno veramente come funzioni il capitalismo, sono capaci di proporre e chiedere questa “soluzione” per i problemi del capitalismo con il lavoro, fraintendendo l’analisi e con essa la critica del capitalismo da parte di Marx come fonte inesauribile di soluzioni contro i problemi di questo modo di produzione, oppure, contro i problemi che i capitalisti creano alla classe operaia: “(…) Dopo aver analizzato i fondamenti teorici della caduta tendenziale, abbiamo dunque individuato come, nell’insieme delle cause antagonistiche alla caduta tendenziale, l’ampliamento dei valori d’uso sia l’espressione di uno dei due aspetti del plusvalore relativo: l’innovazione di prodotto, che oppone resistenza oggettiva alla crisi, mentre quella di processo — l’altro aspetto del plusvalore relativo — ne è la causa. Questo ci interessava qui portare in chiaro, per poi passare — prossimamente — ad analizzare, sempre internamente ai fondamentali marxiani, la possibilità empirica di indurre l’innovazione di prodotto, per migliorare le condizioni di riproduzione della forza lavoro, riducendo la disoccupazione.” (Conclusione finale del articolo ‘ La scintilla e l’operaio: la politica di classe sull’innovazione industriale’ di Massimo Gattamelata, Contraddizione no. 118, marzo 2007)

II. La valuta e il suo valore


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