Il denaro è il materializzato e quantificato potere di comando su prodotti e lavoro: l’irrazionale forma fisica del rapporto di esclusione e potere su cui si basa l’economia politica del capitalismo. Questo potere di comando e di appropriazione, per quanto risultato di mera disposizione normativa da parte dello Stato, da sua parte non è indipendente da ciò che la nazione, della quale esso è mezzo e scopo economico, è in grado di sviluppare di potenza economica, cioè come fonte di denaro. Viceversa la potenza economica capitalistica di una nazione, la sua posizione nella concorrenza tra i “sistemi economici capitalistici”, si manifesta nella potenza del suo denaro. Dell’individuazione e della „produzione“ pratica di questo risultato della concorrenza quale qualità particolare, inerente al denaro, cioè della sua caratteristica peculiare, si occupa un ramo d’affari particolare. Esso non si dedica né alla mera compravendita di merci, né all’investimento, né allo sfruttamento di lavoro, ma alla speculazione monetaria, dove si guadagnano dei soldi confrontando criticamente le diverse monete nazionali. Nei suoi affari quotidiani questo ramo di commercio esegue la classificazione politico-economica decisiva per la gerarchia del mondo degli Stati.
Le valute hanno dei corsi di cambio, e il fatto stesso che quest'ultimi sono quotati e pubblicati più volte al giorno, dimostra quanta importanza gli viene attribuita. Viene informato persino via telegiornale un pubblico di milioni di telespettatori, per i quali tali informazioni non hanno nessun uso pratico. Qualsiasi siano comunque le conclusioni che traggono da queste quotazioni quelli che se ne occupano veramente – gli esportatori, i consulenti d’investimento e i bancari – il loro interesse si limita in ogni caso ed unicamente alle relazioni quantitative, cioè x sterline britanniche equivalgono y franchi svizzeri oppure 1 € = 1,50 $. Il fatto stesso, che in tutto il mondo esista uno scambio intenso di valuta, è ritenuto del tutto normale e come una cosa che non merita ulteriore considerazione.
Questo è un atteggiamento poco appropriato, perché si tratta pur sempre di nientemeno che della materia da cui dipende e cui mira tutta l’attività economica delle nazioni moderne. In questa materia hanno la loro misura e il loro mezzo sia il benessere modesto delle masse – partendo dal salario “normale” arrivando fino al minimo indispensabile che viene concesso dalla provvidenza statale – sia la ricchezza dalla cui crescita dipende assolutamente tutto in questa società, e cioè: il “dare“ e “prendere” lavoro, la vita privata e il bilancio dello Stato.
Ciò che il mestiere del cambiavalute evidenzia per primo, è il seguente fatto: il potere di questa reale quintessenza di ogni potere economico nella società e della società, (‘potere’ si usa qui anche nel senso letterale del verbo!) finisce ai confini della nazione. La ricchezza nella sua forma più adeguata, intorno a cui tutto gira nelle nazioni moderne, cioè la moneta come mezzo di appropriazione illimitatamente utilizzabile, dunque come assoluto mezzo vitale della società e come sua materia economica per antonomasia, questa ricchezza non vale più niente, dove la “parola decisiva” della rispettiva potenza statale cessa di essere vincolante. La “materia” con cui un’economia nazionale lavora, quello che dal punto di vista dell’economia di mercato risulta in ultima istanza il suo vero prodotto, la “materia” con cui i soggetti di questa economia, cioè gli imprenditori, comandano il lavoro della società e con cui misurano i successi che essi conseguono, la “materia” di cui la gente vive , con cui lo Stato governa e amministra la sua società, questa “materia” si rivela un risultato artificiale del potere statale – della sua sovranità territorializzata e, in questa misura, anche limitata.
Questo fatto implica una contraddizione che dev’essere assolutamente risolta – e ciò è la seconda cosa che si evidenzia nella compravendita di valute con le sue parità di cambio continuamente quotate e riquotate. Quando gli Stati vincolano le loro società alla produzione di denaro, non sono certo intenzionati a vedere che solo all’interno delle proprie nazioni tutto giri intorno a questo altissimo bene, mentre nello scambio tra gli Stati vale un’altra definizione di ricchezza. Il potere privato di disporre su beni e lavoro che si concretizza nel denaro nazionale in forma oggettivata, vale, secondo la volontà dello Stato che garantisce questo potere con la sua legge, in modo assoluto; non è soltanto parte di un regolamento interno, ma bensì l’incarnazione della ricchezza materiale che è sotto ogni aspetto illimitatamente ed esclusivamente valida. Una potenza statale, che non solo detta ai suoi cittadini come mezzo e condizione d’esistenza il guadagnare e l’accumulare denaro, ma in veste di “economo” della comunità su cui governa, obbedisce essa stessa a questa disposizione, — come se questa gli fosse stata prestabilita quasi in modo oggettivo, — questa potenza insiste che il denaro di sua responsabilità sia ricchezza per antonomasia e come tale deve trovare riconoscimento in tutto il mondo.
Il problema è però: quello che ogni Stato smentisce nei riguardi del proprio denaro, e cioè, il fatto che la “natura” della ricchezza nella sua società si basa su nient’altro che sul suo potere di disporre della vita economica dei suoi cittadini e di mettere a loro disposizione quello strumento di potere privato che è il denaro – questa connessione la scopre immediatamente, quando si tratta delle monete di altri Stati. Innanzitutto un potere statale non è minimamente disposto a riconoscere una moneta straniera come denaro in quel senso pretenzioso in cui pretende che sia riconosciuta la propria moneta. Quello che le altre nazioni mettono in circolazione come legale moneta viene considerato da uno Stato sovrano, in primo luogo, non più di un biglietto variopinto; nel miglior dei casi un sostituto di denaro, un simbolo di denaro, che comunque ha bisogno di una convalida tramite una “vera”, cioè da lui stesso pienamente riconosciuta, materia di denaro.
È dunque in questo modo, che poteri statali borghesi stanno l’uno di fronte all’altro: rispetto al riconoscimento della propria moneta sono tutti illimitatamente pretenziosi mentre mostrano atteggiamenti estremamente negativi quando si tratta di riconoscere una moneta straniera come denaro nell’unico senso importante per tutti gli Stati: come forma fisica dell’illimitata potenza di disporre su prodotti e servizi, ovverosia su lavoro di ogni genere.
Di conseguenza gli Stati necessitano di un compromesso che poi non tardano a trovare. Infatti non è passato molto tempo da quando gli Stati sovrani dichiarono il proprio, da loro stessi creato mezzo di pagamento come “banconota” nel senso originario che ebbe questa invenzione capitalistica e cioè come promessa di pagamento rilasciata sul metallo nobile che si trovava tesaurizzato nella banca nazionale e che veniva apprezzato da ogni illuministica nazione come ricchezza per antonomasia. In contraccambio per il riconoscimento della moneta straniera veniva perciò preteso un reale diritto d’accesso sul tesoro dello Stato. La base per l’interscambio delle monete cartacee nazionali fu l’internazionale consenso sul feticcio materiale cui il potere della proprietà privata doveva essere inerente e una garanzia – fornita di tutte le cautele possibili – di pagamento in oro.
Al giorno d'oggi gli Stati hanno superato il riferimento all’oro o all’argento. Nell’interno dei loro paesi non ammettono nessuna differenza tra le note della banca nazionale e il denaro „vero e proprio”, e all’estero pretendono dai loro pari che questi riconoscano la loro moneta come denaro sans phrase; viceversa insistono nei confronti di ogni altro sovrano perché esso metta a disposizione e garantisca la sua moneta come mezzo d’affari per qualsiasi interessato proveniente dall’estero.
Come già detto, per ciò si necessita di un compromesso e ci si è accordati: per la valuta di ogni nazione capitalistica vale di principio, che essa sia convertibile, vale a dire che è una variante valida dell’universale e privata potenza del denaro, quantificata e nominata in unità nazionali.
Rimane da fissare in quali proporzioni le unità monetarie delle varie nazioni abbiano la stessa validità. Tali proporzioni tormentano enormemente sia il mondo degli affari che quello della politica, perché sono decisivi per molte questioni: primo, se i conti tornano per produttori e commercianti che entrano in qualità di esportatori con i loro prezzi in concorrenza con l’estero; secondo, se ai mercanti importatori la concorrenza viene facilitata oppure resa più difficile; terzo, se, presupposte uguali tutte le altre circostanze, un’ investimento all’estero, vista la valuta straniera, rende o no; quarto, se il proprio paese rimane attraente per proprietari di valuta straniera, cioè per imprenditori che in linea di principio vorrebbero investire; e, in generale, come stanno le cose per la ricchezza capitalistica della nazione e le sue potenze di accrescimento quando tale ricchezza viene misurata con una valuta diversa da quella locale.
Se su tutti questi punti si scontrano già all’interno di una nazione diversi interessi concorrenziali e contraddittori, ciò accade ancora di più tra le nazioni, quando le contrastanti pretese e calcoli di esse vengono ridotti al comune denominatore astratto di una parità valutaria. Con il consenso sul riconoscimento reciproco dei sovrani nazionali quali, in linea di principio, ugualmente responsabili creatori di una moneta da utilizzare in modo capitalistico, viene conseguentemente dato inizio ad un complesso e permanente litigio sulla quotazione reciproca delle valute dichiarate convertibili. Con il consenso sulla convertibilità delle monete non scompare affatto la principale riserva che i tutori statali hanno a riguardo della “materia di denaro “ dei loro paesi partner. L’assicurazione reciproca degli Stati, di prendere la natura capitalistica dell’altra valuta assolutamente sul serio, include l’obbligo reciproco di ottemperare all’universale diritto di poter disporre su ogni bene che il loro denaro di carta rappresenta in un certo modo: gli Stati garantiscono non solo in senso formale e di principio la convertibilità della loro valuta, ma pure in senso materiale. Le loro banche nazionali devono — in sostanza come nei tempi dei metalli nobili — provvedere a questa garanzia con una scorta di divise adeguatamente dimensionata, cioè con un tesoro a cui appartengono lingotti d’oro accumulati, anche se il metallo nobile è stato demonetizzato, cioè se è stato degradato dalla merce denaro definitiva ad un valore materiale facilmente da liquidare.
L’internazionalizzazione pratica del denaro, la „conversione“ reale delle valute convertibili, cioè l’accettazione delle divise che sono state guadagnate all’estero, l’accredito del valore corrispondente in moneta locale e la fornitura e vendita di valute per gli affari con l’estero — sono mestiere dell’attività creditizia e monetaria, e quindi delle banche. Quest’ultime hanno comunque già concentrato il denaro della società nelle loro mani. Sono coinvolte in ogni transazione rilevante e usano questa posizione come base per creare credito, per concedere credito al mondo degli affari e per utilizzare così le attività economiche altrui per il proprio successo. Quando, da parte dello Stato, il riconoscimento di una moneta straniera è stato disposto e garantito, questa branca inserisce nel servizio del proprio affare internazionale, come parte della propria attività commerciale, senza alcun pregiudizio anche crediti, debiti e mezzi di pagamento stranieri sia come denaro che come mezzi creditizi. E non sarebbe quel mestiere capitalistico che è se non tramutasse l’uso di valuta estranea subito in un affare supplementare e l’affare supplementare in un’intera nuova branca d’affari.
Gli elementi più semplici di tale affare offrono all’osservatore un carattere del tutto innocuo. I cambisti cambiano delle monete straniere in moneta locale e viceversa. Questo lo fanno sulla base dei corsi di cambio che vengono fissati dallo Stato in quanto creatore di denaro e tutore monetario responsabile.[ 2 ] E questa prestazione pesante se la fanno pagare con un canone. Tale attività non si esaurisce nel servizio al singolo cliente: i cambisti raccolgono offerte e bisogni, producono così con il loro scambio delle quantità aggregate, una richiesta complessiva di moneta locale da una parte e di diverse divise straniere dall’altra parte; poi traggono, spinti semplicemente dal loro senso degli affari, dal confronto commerciale di queste quantità, le loro prime “conclusioni” pratiche.
Alcune valute affluiscono in grande quantità e defluiscono anche in grande quantità. Commerciare con queste valute è già redditizio con un minimo di aggio o disaggio. Tesaurizzare tali divise equivale a un deposito di moneta locale; queste divise servono spesso come base di affari creditizi in qualsiasi valuta, perché nel caso di necessità possono essere cambiate in modo facile e veloce in ogni altro mezzo di pagamento richiesto. Divise che sono richieste in grandi quantità, ma che arrivano soltanto in quantità scarse permettono e richiedono un margine di prezzo a carico della clientela più grande, “perché” la moneta richiesta non si può deviare dal normale flusso delle divise nelle e dalle casse della banca, ma deve essere comprata o prestata dai partner all’estero. Se questo è il caso con diverse o addirittura con tutte le divise ciò non mette in buona luce la propria moneta: evidentemente la moneta locale è richiesta generalmente troppo poco. Dall’altra parte, quanto più forte e quanto più unilaterale la richiesta della propria moneta da parte della clientela e dei partner d’affari nell'estero sia, tanto più grandi sono i margini della sua vendita, cioè tanto è più cara; questo parla, dal puro punto di vista dei criteri tecnici del commercio monetario, a favore della sua qualità. Infine, con monete che affluiscono, ma che non sono richieste in misura rilevante, non si può fare alcun affare, eccezione fatta per il loro acquisto ad un prezzo abbastanza basso: come mezzo di garanzia per la creazione di credito e come mezzi creditizi tali monete non sono certamente adatte, di conseguenza il cambista deve cercare di trovare degli acquirenti per esse e questa circostanza fa pagare al cliente ecc.ecc..
Con le relazioni tra offerta e domanda da essi prodotte, i cambisti, sempre solerti a servire l’interesse della loro clientela, entrano in un rapporto critico con le banche centrali, i cui prodotti cambiano e con i tutori monetari che fissano i cambi con il potere legale. Se, sul livello della parità prescritta, continuamente e in grande quantità moneta locale deve essere cambiata in valuta straniera, se però contemporaneamente c’è poca domanda di tale moneta locale, la rispettiva banca centrale deve in seguito alla sua garanzia per la convertibilità dei suoi prodotti saccheggiare le sue riserve di divise. Di conseguenza sta davanti al problema per quanto tempo voglia o possa reggere il deflusso del patrimonio monetario nazionale che tesaurizza e amministra. Il mondo d’affari autorizzato al commercio monetario fa comunque capire alla banca centrale in modo pratico che il prezzo della moneta nazionale è troppo alto e il suo valore “in realtà” più basso di quanto viene indicato o meglio “preteso” dal cambio ufficiale. Se, in caso contrario, i cambisti arrivano col loro commercio monetario a una pletora di monete straniere, le quali trasferiscono in grande stile alla propria banca centrale e se, dall’altra parte, la banca centrale non può fornire alla propria clientela abbastanza moneta locale per il suo fabbisogno e i cambisti richiedono dal nazionale creatore di denaro sempre più quantità della sua carta stampata, i responsabili della politica monetaria nazionale non possono fare a meno che “accettare” il giudizio, che stanno vendendo la loro valuta ad un prezzo più basso del suo “vero” valore, che essa è “sottovalutata” e che, attirano ovviamente, monete di qualità inferiore ovvero che in ultima istanza regalano la loro moneta preziosa. Naturalmente entrano in gioco, sia nell’uno che nell’altro caso, dei profittatori importanti e nel mondo d’affari nazionale e internazionale si formano forti interessi a lasciare tutte le sopra descritte relazioni come sono. Per le istanze politiche i cambisti creano però unicamente dovuti all’andamento dei loro affari, la costrizione (economica) di correggere i cambi prescritti; per se stessi realizzano con ciò un’occasione di fare soldi su un livello ancora più alto che funziona come segue: i cambisti speculano sulle correzioni che essi stessi si attendono e quindi comprano per conto proprio – con denaro proprio o prestato, ma in ogni caso indipendentemente dagli affari con l’estero ai quali sono di servizio con il loro baratto monetario – delle divise “sottovalutate”. Dall’altra parte vendono in massa valuta che considerano “sopravvalutata”, soltanto per lo scopo di approfittare dalle corrispondenti variazioni di corso. Con ciò aumentano enormemente la pressione sui responsabili politici monetari di effettuare le dovute correzioni. In tale modo gli Stati — che una volta vincolatosi al capitalismo, hanno reso convertibili le loro monete e con ciò dato via libera al baratto monetario con esse — si vedono confrontati con il feed-back adeguato alle loro decisioni: la speculazione che hanno messo in moto con la loro licenza li costringe al continuo adattamento delle relazioni di valutazione tra le loro valute.
Le nazioni determinanti nel commercio internazionale si sono liberate con un taglio radicale dai tormenti che per esse significava tale permanente soppesare l’andamento del mercato monetario internazionale, i calcoli degli Stati interessati, gli interessi contrastanti dell’imprenditoria nazionale come tale e anche rispetto al mondo di affari internazionale. Hanno deciso di dare la fissazione delle parità fin dal principio nelle mani di quelli che fanno i loro soldi con la compravendita delle loro monete – i cambisti. Se a fin’ dei conti la relazione tra domanda e offerta creata dagli speculatori decide sull' andamento dei corsi, diventa ovviamente obsoleta la necessità di una direttiva monetaria dal lato ufficiale, anzi contraddirebbe questa logica economica l’intenzione di dettare alla concorrenza liberalizzata dei cambisti e alla loro clientela il risultato dei loro affari. I tutori statali delle monete nazionali, con questo punto di vista e con la decisione di dare via libera alla fluttuazione libera delle loro valute, hanno deciso che il capitale finanziario con i suoi affari sia responsabile per la valutazione reciproca delle monete, quali unità di misura della ricchezza nazionale; e con ciò sia responsabile anche per la valutazione complessiva della ricchezza nazionale in relazione ad altre monete. Certo: le banche centrali garantiscono, come prima, con il tesoro di divise per la convertibilità della loro moneta; adesso lo fanno però a seconda le condizioni, sotto le quali il capitale finanziario internazionale, autorizzato allo scambio libero, fa ricorso con le sue strategie di compravendita – alle banche centrali. Facendo così, il capitale finanziario internazionale confronta gli Stati con un bilancio dei loro affari nazionali ed internazionali che pone delle condizioni decisive per la continuazione di tali affari.
Il primo bilancio che i „mercati monetari“ presentano, — sotto la forma aconcettuale di una parità valutaria, risultato dei loro stessi affari, — alla nazione la cui moneta valutano, riguarda il traffico internazionale delle merci. Qualunque siano gli utili che i produttori capitalistici e gli esportatori o importatori riescono a realizzare nello scambio del denaro guadagnato e pagato nel commercio con l’estero, i successi e le sconfitte nella concorrenza della propria imprenditoria si sommano per la nazione in un afflusso o deflusso di ricchezza capitalistica nella sua forma decisiva e cioè nella forma di denaro. Una bilancia commerciale, infatti, non è positiva, — non soltanto in senso tecnico ma anche in senso economico, — quando una nazione si dedica ad una vita comoda coi prodotti di lavoro altrui. Al contrario: positiva è una bilancia commerciale quando la nazione “fornisce” il resto del mondo con i suoi prodotti; è positiva quando guadagna così più denaro di quel che deve pagare (come nazione) ai fornitori di indispensabili materie prime e a produttori che nella concorrenza capitalistica sono superiori alla propria imprenditoria. Viceversa viceversa: anche tra le nazioni capitalistiche la compravendita di merci non ha altro contenuto che sul loro mercato interno; anche rispetto all’estero si tratta di appropriarsi e di arricchirsi di ricchezza astratta, cioè di denaro nella sua qualità di potenza materiale per realizzare un'ulteriore crescita in concorrenza con altri. Di conseguenza il commercio monetario mondiale effettua e registra come primo bilancio se questo risultato si verifica su scala nazionale e gestisce gli effetti: questa istituzione, cioè i cambisti con i loro affari, bilanciano se, a saldo, la propria nazione si mostri capace di appropriarsi con l' accumulazione di capitale all’estero dei redditi monetari e renderli utili alla crescita del proprio paese, oppure, se viceversa defluiscono i mezzi finanziari prodotti nel proprio paese, se dunque defluisce all’estero della potenza di accrescimento o addirittura una parte della sostanza del patrimonio nazionale. È in questo modo che il commercio monetario mondiale mette in atto la distribuzione della ricchezza astratta nel mondo. E lo realizza precisamente con quei due effetti che riesce ad ottenere con la sua attività: da un lato diminuisce le riserve di valuta e gli altri “valori” in possesso delle Banche Centrali che amministrano la moneta della nazione con una bilancia commerciale notoriamente negativa; dall'altro lato causa l'aumento del tesoro pubblico delle nazioni di successo. In più il commercio monetario mondiale trae dal mancante o alto uso di una moneta una conseguenza pratica riguardo al suo valore, cioè dalla massa delle monete inutili o, rispettivamente richieste, fa delle deduzioni riguardo alla loro unità di misura. Svaluta o rivaluta le rispettive divise e riduce o aumenta così sia la forza che la potenza della ricchezza capitalistica in atto di accumulazione nelle rispettive nazioni.
Tra le nazioni il denaro non scorre solamente per via delle transazioni di esportazione e importazione. Scorre anche — e anche di questo il commercio monetario internazionale fa in modo suo ogni giorno il suo bilancio - in forma di mezzo finanziario per crediti e per investimenti: il denaro scorre anche per effettuare la circolazione internazionale dei capitali. Per i capitalisti che si occupano di quel mestiere si tratta semplicemente di incrementare il loro patrimonio in paesi stranieri nella stessa maniera in cui lo stanno già facendo nei loro paesi patria; utilizzano perciò all’estero risorse e forza lavora, prestano il loro interessato contributo alla produzione e circolazione della ricchezza capitalistica nel paese straniero; partecipano con il loro denaro all’accumulazione di capitale sul luogo, si arricchiscono servendosi del bisogno creditizio dei imprenditori stranieri e utilizzano l’indebitamento dei poteri statali stranieri per aumentare il proprio patrimonio. Il fatto che a questo scopo trasferiscano moneta propria nella nazione in cui si aspettano dei successi concorrenziali con i loro investimenti, ha – accanto a quelli della bilancia commerciale – da parte sua degli effetti sul cambio di valuta e sulla distribuzione dei mezzi di crescita capitalistici tra le nazioni. Ciò aumenta gli effetti negativi di una bilancia commerciale negativa, se dei capitali vengono ritirati o li annulla nella misura in cui degli imprenditori con una “moneta buona” diventano attivi in paesi con poca forza finanziaria. La loro esportazione di capitale torna utile alla scorta di divise di tali paesi ed eventualmente anche al corso di cambio della sua moneta; frena o addirittura impedisce il deflusso di riserve ed aumenta la massa e la forza di crescita del capitale nel paese.
Dall’altra parte, gli investimenti all’estero danno ai surplus, accumulati dal mondo di affari in uno dei centri dell’accumulazione di capitale, un impiego capitalistico adeguato; il denaro guadagnato fa quello che deve fare, cioè servire come mezzo del suo accrescimento. Questo non è soltanto vantaggioso per le imprese che cercano delle opportunità per investire capitale e ne trovino tali all’estero; questo è generalmente vantaggioso anche per gli Stati le cui monete vengono usate in tutto il mondo capitalistico come mezzo finanziario sia sotto forma di credito sia per investimenti da imprenditori interessati in affari sul piano globale.
Tali Stati vengono infatti confermati così nella loro funzione come creatori di denaro e creditori del capitalistico mondo di affari: la loro moneta viene usata per pure ragioni economiche, sui mercati stranieri e in ultima istanza su scala mondiale, in tutte le funzioni in cui viene anche impiegata sul loro territorio nazionale, dove queste funzioni sono però dovute al decreto sovrano. Questo ha un significato assolutamente fondamentale, perché Stati moderni, con la moneta emessa dalla loro Banca Centrale, non solo servono una domanda di mezzi di pagamento che il mondo d'affari sviluppa quasi in modo “naturale” — cosa che, stando a sé, risulterebbe già utilissima alla continuazione dell’accumulazione nazionale di capitale e alla sua crescita. Ma è di più: gli Stati riforniscono la loro economia con la moneta della banca centrale esplicitamente sotto la forma di mezzo creditizio per incentivare una crescita che altrimenti magari si farebbe aspettare. In più gli Stati finanziano con la loro moneta-credito le proprie spese statali, che, in quanto domanda solvibile supplementare, da una notevole spinta ai guadagni realizzabili nel economia nazionale. In questo modo gli Stati fanno sì che il denaro funzioni come mezzo di crescita, nonostante che si tratti di un denaro che difatti non è nato da lavoro redditizio, che non è mai stato guadagnato da nessuno, ma che rappresenti invece semplicemente crescita anticipata: una operazione, questa, per il cui successo voluto i creatori di denaro, cioè gli Stati, puntano sull’aspettativa che gli affari nazionali siano capitalisticamente riusciti e che così essi giustificano quell’operazione, impedendo che un rincaro generale, cioè l’inflazionistico declino del valore della moneta, smascheri la loro moneta-credito come mera finzione gonfiata. Questo calcolo è giustificato, cioè il denaro creato dalla sovranità viene confermato, come denaro incondizionatamente idoneo al suo scopo capitalistico quando viene esportato e funge su scala mondiale com’è stato voluto e com’è necessario che funzioni economicamente: come punto di partenza e punto d'arrivo, come strumento e risultato oggettivato della produzione capitalistica, della circolazione e dell’accumulazione e, come mezzo finanziario di altri poteri statali sovrani che da parte loro si sono vincolati al valore del denaro. Utilizzato come mezzo finanziario da parte degli esportatori di capitale diviene mezzo creditizio e ‘materia’ della ricchezza capitalistica del mondo. E questa, la sua utilizzazione globale, dà diritto a ogni somma, che il suo creatore mette nel mondo come mezzo finanziario della sua economia nazionale e per il proprio fabbisogno dello Stato. Una tale utilizzazione dà un'autenticazione alla sua moneta come reale ricchezza proprio nella forma in cui il mondo vuole guadagnare e accrescere questa ricchezza e conferma allo Stato responsabile quella potenza finanziaria che quest’ultimo si è arrogato con la sua creazione di denaro. Della ricchezza capitalistica del resto del mondo un tale Stato non dispone soltanto nella misura in cui i suoi esportatori di successo facciano crescere la sua scorta di moneta straniera formalmente convertibile ovvero in misura in cui svuotino i tesori di divise di altre banche centrali. Dispone della ricchezza del mondo in un modo più generale: il denaro che esso garantisce gli dà la potenza di disporre sulla ricchezza del mondo proprio nella misura in cui un tale Stato crea il suo denaro, lo fa usare e lo usa esso stesso. Il suo denaro è ricchezza per antonomasia. È in un modo così fondamentale e ad un livello talmente elevato che una nazione approfitta dell’esportazione di capitale dei suoi capitalisti di successo.
Questo successo ha tuttavia il suo prezzo. Lo devono pagare quei paesi che non solo approfittino delle grandi importazioni di capitale — di più o di meno, a seconda dello sviluppo della concorrenza tra le imprese del luogo e le imprese straniere, — ma ne sono dipendenti. Pagano dunque il prezzo quei paesi, le cui economie nazionali non riescono essere redditizie — come nelle nazioni capitalistiche “sviluppate” — nella funzione doppia di operatori d’investimento e di sfera d’investimento, ma che soffrono, tendenzialmente, o addirittura per propria ammissione, di una mancanza di capitale. Nei paesi, in cui la massa e il ricavo del denaro, creato in modo autonomo da parte dello Stato e gettato nella circolazione nazionale sotto forma di mezzo creditizio, non porta a successi decisivi nella concorrenza sul mercato mondiale, cioè nei paesi in cui la crescita nazionale dipende dall’afflusso di capitale in forma di denaro creditizio straniero, la moneta straniera fa concorrenza alla moneta locale sia nella sua funzione di mezzo di credito che nella sua funzione di mezzo di pagamento determinante. Incombe il pericolo che la moneta straniera riduca il rango della valuta nazionale non solo come fonte della ricchezza nazionale ma, in generale, come “materia” della ricchezza nazionale; lo Stato si vede di fronte al pericolo che la moneta straniera sostituisca la moneta nazionale in questa funzione sempre di più e che si metta al suo posto. Nel peggior caso il denaro importato contesta in modo pratico, cioè con l’uso che il mondo di affari fa di esso al sovrano del luogo che egli abbia messo un denaro creditizio utilizzabile per l’accrescimento della ricchezza capitalistica al mondo. Poco a poco, il sovrano del paese esportatore di capitale, creatore di una propria moneta-credito anch’esso, prende il posto del tutore della moneta locale. Prima, come potere di garanzia della moneta utilizzata in maniera capitalistica e come fonte dei mezzi finanziari, necessari per il suo accrescimento, cioè per l’accrescimento del proprio denaro sotto la sovranità straniera; poi addirittura come autore della solvibilità dello Stato straniero stesso. Lo Stato del luogo si trova in questo modo ridotto alla funzione di un’agente dipendente della potenza finanziaria degli Stati cui multinazionali hanno investito nel suo paese e che sono sempre sul punto di distogliere di nuovo la loro buona moneta dal paese che da parte sua non è in grado di offrigli una valuta, nella quale potessero vedere loro ricchezza capitalistica al sicuro.
Si vede: per le nazioni capitalistiche il “guadagnare denaro” è diventato il senso di essere e mezzo di vita; essi hanno reso tutta l’attività economica fonte di un denaro, che è mezzo di credito di successo e conformemente richiesto in tutto il mondo. Fino a che punto sono arrivati in merito, questo è l’oggetto e il contenuto del bilancio complessivo che l’internazionale dei cambisti presenta adesso agli statuali creatori di denaro. Lo presenta in maniera semplice: specula con le loro monete, su di esse e contro di esse. Mentre i cambisti internazionali comprano e vendono valute, debiti pubblici, titoli di credito di ogni genere e di diverse nazioni, sempre comportandosi conformemente alla propria e autonoma logica speculativa, trasferiscono delle somme in quantità quasi inimmaginabili per i poveri profani. Lo fanno “solo” per approfittare della differenza di valutazione più piccola e i suoi movimenti. In questa maniera realizzano una valutazione critica permanentemente attualizzata della capacità di rendimento di intere nazioni. Tutto ciò succede in merito ad un punto di vista tanto primitivo quanto adatto a quel contenuto economico: i cambisti decidono ininterottamente in quale misura i debiti delle nazioni e le monete che rappresentano questi debiti gli sembrano essere redditizi e sicuri. Nella formazione di queste valutazioni entrano le più diverse constatazioni e supposizioni. Di massima importanza è, per esempio, se una nazione si è indebitata, in valuta propria o in valuta straniera, presso la propria società o presso l’estero; molto importante è però anche la quantità dell’indebitamento. Vengono ulteriormente valutati i mezzi finanziari, le prospettive della politica di crescita e della politica di promozione delle esportazioni; il tasso d’inflazione e la politica del bilancio dei governi, il loro presunto bisogno di credito. In più vengono considerati quanta potenza una nazione abbia, quando si tratta di influenzare non solo la politica commerciale, finanziaria e monetaria di altri Stati ma anche in generale e principalmente le condizioni del commercio internazionale; perciò vengono valutati anche questioni di ogni genere riguardante il rapporto di forza tra le nazioni, in particolare la stabilità di un governo, la sicurezza del nazionale approvvigionamento di materie prime ecc. ecc.
Tutto questo si riassume nel corso di cambio che “i mercati” “verificano” per la valuta e i titoli di credito delle diverse nazioni, mettendo con la loro speculazione su cambiamenti ogni corso appena fissato immediatamente di nuovo in dubbio. Ma il loro giudizio ha ancora ben altre conseguenze. Con la loro speculazione i cambisti mettono in atto una distinzione ancora più fondamentale: una distinzione qualitativa. Da un lato ci sono quelle poche valute che offrono a loro sicurezza riguardo a tutti i punti che una speculazione possa avere che servono perciò come vero punto d'arrivo e mezzo indispensabile dei loro affari. Dall’altro lato ci sono tali debiti e monete nazionali con cui fanno l’operazione “in” solo per fare poi, con molto profitto, la corrispondente operazione “out”. Volentieri fanno delle escursioni in dei terreni speculativi di rischio alto per ritornare poi, nella ricerca di sicurezza per le loro “acquisizioni”, in tali monete in cui essi stessi hanno già da lungo fiducia e a cui hanno attribuito il rango di una “solida valuta di speculazione”. Così si affermano soltanto poche valute come „pregiate“. Moltissime altre si screditano invece in misura diversa come delle valute “deboli” e ottengono un valore solo con riservatezza. Un giudizio che si fa valere nella prassi in forma di tassi d'interesse estremamente alti e in ogni sorta di affari con l’intenzione “to hedge the risk” ecc.. Queste valute contano (quasi) unicamente come sostituti di denaro reale, cioè di denaro solido e adeguato per fare delle operazioni finanziarie “difficili”. Poi ci sono ancora molte altre monete nazionali che per il globale mercato monetario sono del tutto irrelevanti. Le valute dovevano essere „convertibili“, tutte, nelle nazionali unità di misura diverse, l’espressione della stessa e identica ricchezza. Alla fine si distinguono non soltanto per il loro “potere d’acquisto” e le modifiche quantitative di esso. Si distinguono invece anche qualitativamente secondo il criterio, in quale misura il capitale finanziario si consideri, nella sua speculazione con i debiti e sui debiti delle nazioni, al sicuro con esse. In tale forma, cioè nell’unico „linguaggio“ adeguato al denaro, il commercio monetario attesta alle nazioni il suo giudizio vincolante sul grado in cui valgono per l’accrescimento speculativo di denaro e con ciò in linea di principio di essere un buon posto d'investimento per il capitale. Il commercio monetario rende noto agli Stati, e questo addirittura in modo impegnativo, fino a che punto sono arrivati con la loro potenza di creare con la moneta della loro Banca Centrale come mezzo creditizio crescita capitalistica; e con ciò il commercio monetario rende anche noto, secondo scienza e coscienza del mestiere, cioè seguendo l’andamento della propria speculazione, quale futuro si aspettano come nazioni capitalistiche.
Gli Stati capitalistici determinanti hanno sì conferito ai mercanti di denaro e di credito il potere di verificare attraverso il loro affare speculativo la qualità delle nazioni come sfera d'investimento capitalistico, ma non hanno nessuna intenzione di mettere con ciò la loro sovranità decisionale a disposizione. Anzi, gli Stati tengono sotto controllo il globale andamento degli affari; e con questo loro controllo provvedono da sempre e generalmente al suo proseguimento. Seguendo questo principio gli Stati Uniti hanno provveduto con l’esportazione di capitale e il sostegno creditizio di nuove valute nei campi di macerie della seconda guerra mondiale, alla neo-fondazione di un capitalismo mondiale basato sul dollaro. Un quarto secolo più tardi gli americani hanno abbandonato, — sia in controversia con i loro rivali dell’alleanza occidentale che in conformità con loro, — la finzione che la loro moneta si contraddistinguesse per la sua copertura in oro come moneta universale. Hanno conceduto alle monete nazionali che nel frattempo si sono affermate con successo come valute capitalistiche in linea di principio lo stesso rango monetario del loro greenback. Gli iniziatori politici del mercato mondiale neofondato hanno fin dall'inizio tenuto conto della necessaria distinzione delle nazioni fra vincitori e perdenti della concorrenza internazionale. Nel loro modo di considerare questa distinzione stanno però minimizzando il contrasto tra i paesi. Dal punto di vista dei loro interessi percepiscono nient’altro che la necessità di affrontare ogni qualvolta momentanee “difficoltà di liquidità” nei pagamenti internazionali e da parte di certi i suoi partecipanti. Per assicurare la continuazione indisturbata dei proficui affari attraverso le frontiere si prese delle precauzioni contro tali “difficoltà”. Così fu creato il Fondo Monetario Internazionale (FMI) come istanza politica soprannazionale che garantisce che le nazioni colpite siano in grado di saldare i loro obblighi di pagamento anche nel caso in cui non sono solvibili. Contemporaneamente fu creata la Banca Mondiale come istanza di assegnazione di credito politico per restituire a nazioni rovinate la loro capacità di affrontare il mercato mondiale. Questa’affidabilità creditizia garantita per tutti gli Stati che hanno da offrire opportunità di profitto ai capitalisti nonché l’invasione del mercato mondiale di moneta universale attendibile, particolarmente di origine americana, hanno abilitato il capitale finanziario internazionale ad un'attività economica di dimensioni tanto imponenti come oggigiorno. Certo che ogni tanto questa branca rovina con i suoi investimenti speculativi degli interi Stati, portando alla luce la loro insolvibilità e, in fondo, anche la loro mancante affidabilità creditizia. In questo modo la speculazione monetaria solleva anche per i vincitori del mercato mondiale la questione del proseguimento del bell’affare mondiale. I padroni politici del mercato mondiale trovano però sempre, — anche con tutto il loro proclamato rispetto per il “giudizio dei mercati” (che non giova di più importanza di quella che essi gli attribuiscono) — una via d’uscita. Con delle garanzie di credito arrivano alla continuazione o al riinizio dell’affare. In ogni caso non permettono, e sono anche capaci ad impedirlo, il ritiro di partecipanti dal mercato mondiale. La concorrenza delle nazioni rimane irrevocabile. Questa decisione viene eseguita con delle manovre di salvataggio delle istituzioni finanziari internazionali fino al punto della “cancellazione dei debiti dei Paesi più poveri.” Così si è arrivati, — approfittando del controllo organizzato che le grandi patrie del denaro buono e duro hanno sui debiti delle altre nazioni e istituzionalizzando la regola del prolungamento degli obblighi finanziari accumulati e dei crediti irrecuperabili, — a quei risultati di cui il capitale finanziario internazionale nel suo modo pratico “esegue la contabilità”. Si è formata una gerarchia di valute, in cui trova la sua espressione complessiva lo status delle nazioni nell’economia mondiale. Questo status ha un carattere fisso, difficile da correggere, almeno fintantoché l’ordine mondiale dominante viene ancora rispettato e per i suoi grandi usufruttuari questo status è alquanto resistente a delle eventuali crisi.
Per la maggior parte dei membri della moderna famiglia dei popoli dal loro status risulta un esito pesante: non dispongono di denaro, nonostante la loro moneta nazionale sia dal punto di vista tecnico-finanziario convertibile e venga persino cambiata. Il denaro, che essi creano, non viene usato come mezzo finanziario di piena validità, non vale come denaro universale e quindi non dà nessuna libertà finanziaria al suo creatore. Non appena un tale potere statale agisca come ogni dominio illuminato che si fonda sull’economia di mercato e si dà credito nella propria valuta per incentivare, in virtù del proprio potere, la crescita e per finanziare il proprio bilancio, la svalutazione del denaro disturba e distrugge gli affari accreditati con esso. Il suo indebitamento in moneta propria danneggia le finanze dello Stato. Incombe il fallimento complessivo finanziario, cioè l’ammissione pratica che la propria valuta in fondo non valga niente. Tali paesi si trovano davanti alla necessità di guadagnarsi nella misura dei loro bisogni di importazione nonché nella misura dei loro obblighi di pagamento accumulatasi nel loro bilancio il denaro universale di altre nazioni — preferibilmente dei dollari americani; una cosa poco facile, visto la loro carenza di capitale e l’inutilizzabilità della loro moneta come mezzo creditizio della crescita capitalistica. Soltanto pochissimi candidati di questo tipo di Stato sono in grado di proporsi ragionevolmente lo scopo, di arrivare — attraverso una massiccia importazione di capitale che riesce anche a crescere — ad una bilancia commerciale positiva in tal grado che il loro tesoro di divise gli permette qualche libertà finanziaria; ma anche se raggiungono questo scopo ciò non significa automaticamente che si siano guadagnati una promozione della loro propria valuta. Non è detto che acquistino il rango di una moneta universale, che da sua parte potrebbe incentivare sia all’estero e nel paese stesso degli affari di successo, confermandosi così come mezzo di credito.
Un tale successo può registrare all’inizio del ventunesimo secolo soltanto un pugno di Stati. Come potenze finanziarie mondiali non sono solo con i loro mezzi di pagamento e i loro crediti al servizio della loro imprenditoria nazionale, ma soddisfanno anche il bisogno di denaro e di credito dell’intero mondo capitalistico. Viceversa fanno ricorso a tale affare internazionale nel suo complesso per convalidare i prodotti cartacei della loro Zecca e i loro debiti nazionali, cioè per il loro riconoscimento come reale ricchezza capitalistica; come se stesse dietro ad ogni banconota e ogni debito di più dell’autorità del sovrano responsabile come garante, cioè valore realmente prodotto e realizzato. Tali potenze, e solo loro, dispongono esclusivamente della libertà di fare credito a se stesse nella propria moneta e per il valore di questa, anche se quest'ultima non rappresenta nient'altro che i loro debiti e di far garantire l’intero mondo capitalistico con tutti i suoi mezzi finanziari e le sue riserve monetarie per il valore della propria moneta. Ciò determina la potenza finanziaria di queste nazioni, una potenza che i loro capi autorizzati utilizzano più che possono. Quando sostengono Stati, che non dispongono di una moneta universale con dei crediti, mantengono per le loro multinazionali il mondo come sfera d’affari e impongo contemporaneamente le autorità straniere di accettare diverse costrizioni economiche. Il rispetto di quest'ultime racchiude in sé il riconoscimento della gerarchia di status dell’economia mondiale e il riconoscimento del ruolo dominante delle potenze finanziarie. Questi reclamano da parte loro la competenza e il diritto di sorvegliare tutto il mondo riguardo a “good goverance” cioè un buongoverno secondo il loro gusto. Sono preoccupate e allarmate quando, magari ancora in seguito a dei internazionali rapporti di utilizzazione che hanno stabilito loro stessi, si delineano — ad un punto imprevisto e magari in modo incontrollato — dei cambiamenti notevoli nelle globali strutture di potenza e nell’ordine gerarchico delle nazioni. In tutti questi casi si sentono sfidati di riacquistarsi, con la loro potenza finanziaria, la posizione di padrone e usufruttuario della situazione; e se questo non basta per farsi rispettare, prendono in considerazione di voltare pagina e di passare ad azioni che avranno una forte impatto verso la definizione di sicurezza degli Stati problematici. Dall’altro lato le potenze mondiali capitalistiche s’intralciano reciprocamente non solo con tali affari, ma anche con la loro politica monetaria e creditoria nel suo complesso. Anche per loro la concorrenza sulla ricchezza del mondo è divenuta un impegno totale; ed è specialmente tra di loro che viene condotta in modo decisivo la competizione tra le loro monete, ognuno di loro vuole che la sua sostituisca le altre. Ovunque, dove c’è la necessità di credito e ovunque dove viene impegnato denaro, sia come mezzo finanziario, sia come valuta di speculazione o come fondo di riserva, cioè dappertutto e su tutti i “fronti”, cercano i grandi creatori di moneta universale di trovare affluenza per il loro denaro a costo dei rispettivi altri. Espressamente per questo scopo i partner della Euro-zona hanno stornato per lo meno una parte centrale della loro autonomia finanziaria e della loro concorrenza economica. Hanno riunito la quintessenza della loro potenza economica nazionale cioè le loro valute nazionali, in parte valute di successo, in parte valute minacciate dal degrado, per trasformale in un mezzo di pagamento e di credito collettivo. Intesero di proporre all’industria finanziaria con la sua eterna ricerca speculativa di sicurezze finanziarie un’offerta imbattibile e vollero convincere i tutori delle riserve monetarie in tutto il mondo della propria moneta universale; tutto ciò successe con lo scopo di contestare al dollaro americano la sua precedenza come valuta mondiale. Con ciò attaccarono non solo il cosiddetto “american way of life” nel senso di modo di vivere nella madrepatria del capitalismo mondiale, ma attaccarono più che altro le condizioni d’esistenza e di successo della potenza mondiale.
Gli Stati capitalisti concorrono alla ricchezza del mondo; e questo lo fanno nella forma assurda di concorrere alla fiducia e al consenso della classe dei proprietari che in tutto il mondo si occupa di aumentare la potenza di comando sulla ricchezza e sul lavoro quale il potere statale assegna alla proprietà. Per fare buona impressione sugli investitori e sugli speculatori, i quali gli Stati stessi hanno, di certo in modo revocabile, autorizzato a giudicare sul valore e sull’utilità della loro moneta, gli Stati fanno di tutto per sviluppare il loro paese come fonte redditizia di denaro e il loro denaro come mezzo di affari usato in modo universale e richiesto da tutto il mondo; oppure almeno come mezzo finanziario riconosciuto dall’élite danarosa e dai suoi manager. Seguendo deliberatamente “il giudizio dei mercati“, — al quale, in caso che non corrisponde alle sue pretese su ricchezza e potere, nessun governo si sottomette, — gli Stati diventano brutali contro i loro rivali e il proprio popolo esattamente nella misura che ritengono opportuna per conservarsi il mondo d’affari internazionale come base materiale del proprio dominio.
Verso l’interno, rispetto all’amministrazione della propria società, tutti i poteri statali ricorrono, in conformità al loro status nella concorrenza internazionale e con tentativi ripetuti, risolutamente alla banale quintessenza di tutta la saggezza politica-economico: serve lavoro redditizio – tanto quanto possibile. Gli uni, che concorrono per il denaro di altre nazioni sottomettono le loro masse, in conformità al rozzo stato di sviluppo delle nazionali forze produttive medie, ad un regime di sfruttamento, il che fa pensare ad osservatori critici del primo mondo ai tempi del capitalismo manchesteriano fortunatamente superati nei loro paesi patria. Con ciò non vogliono però lanciare nessuna critica al capitalismo come modo di produzione. Invece denunciano — anche sotto titoli come “dumping salariale” e “dumping ambientale” — dei vantaggi di concorrenza che considerano incorretti. Quando ci si è lamentati abbastanza cioè fintanto il pubblico ha inteso che tali paesi non lasceranno le loro cattive abitudini, segue l’esortazione al proprio mondo d’affari di intraprendere tutto ciò che capitalisti, anche senza concorrenza da parte del terzo mondo, intraprendono di solito: non dovrebbero solo continuare a sfruttare la superiorità del loro capitalismo sul campo della produttività di lavoro, ma imporsi anche di più in questioni come trattamento e pagamento della forza lavoro. Così è possibile, a differenza di paesi con estremo sfruttamento di ridurre nelle nazioni progressive alcune “conquiste” ormai superate. Visto la concorrenza dei salari bassi proveniente dall’estero, in fin dei conti tali conquiste non sono altro che una minaccia per l’unica “conquista” veramente importante per un dipendente salariato moderno, cioè il suo posto di lavoro. In tale senso viene propagato e praticato, come segreto del successo, tutto ciò che i critici comunisti hanno una volta accusato come tecnica di sfruttamento del modo di produzione capitalistico. Contemporaneamente viene respinto e combattuto come indebolimento nella concorrenza internazionale e germe del tramonto della nazione tutto ciò che i riformatori socialdemocratici e cristiani hanno inventato per rendere lo sfruttamento capitalistico sopportabile per le sue utili vittime. È questo il modo in cui le masse dipendenti partecipano all’imperialismo monetario della loro nazione.
Sul campo internazionale, quando si tratta di guadagnare soldi negli affari esteri, gli Stati abbandonano la loro classe imprenditoriale ancora di meno a se stesso e al suo destino concorrenziale. Instancabilmente lottano per condizioni d’affari vantaggiose sul piano unilaterale. Non soltanto nel rapporto con dei singoli partner, ma anche in generale s’impegnano per ottenere dalla WTO o da altre istanze sia delle regole, sia un’interpretazione delle regole e uno sviluppo del catalogo di regole dell’affare internazionale, dai quali si possono promettere un vantaggio di concorrenza per la loro economia nazionale e l’uso del loro credito e della loro valuta. E come ogni conflitto internazionale di tipo elevato, anche questa lotta, che ha lo scopo di arrivare a singole determinazioni di diritti nazionali ecc., viene accompagnata da una lotta delle potenti nazioni su influenza e posizioni di potenza che le permettono di determinare in modo complessivo e definitivo le condizioni di base dell’ordine economico mondiale e di essere responsabile per la loro impostazione. Anche in questa sfera le obiezioni delle grandi potenze economiche contro un dumping contrario alle regole, particolarmente da parte di certi “paesi emergenti” troppo ambiziosi hanno il loro posto fisso; viceversa appaiono obiezioni di questi ultimi sulle sovvenzioni delle nazioni ricche che porterebbero a distorsioni della concorrenza. Si scambia, reciprocamente, l’accusa di un comportamento non conforme alle regole del sistema capitalistico, di un’infrazione delle norme fondamentali del rapporto pacifico e equilibrato tra i partecipanti del mercato mondiale. E con ciò ci si accusa, in ultima istanza, di violare il consenso fondamentale dei sovrani sulla loro coesistenza nel campo dell’economia mondiale. A seconda di quale potenza solleva con quale pressione questa accusa, quest'ultima appartiene non solo al regno della retorica morale, ma anche al campo delle minacce diplomatiche. Un governo rende noto che — visto il comportamento di uno o più partner — vede infrante le premesse e il contenuto sostanziale del riconoscimento reciproco di partecipanti fidati al pacifico affare mondiale e obbligati all’economia di mercato. Tali affari non si possono più facilmente sistemare sul piano e con i mezzi del ricatto diplomatico commerciale, perché viene messo in dubbio la volontà di certi interessati di rispettare le regole e le fondamentali determinazioni politiche dell’ordine mondiale, sotto le quali le costrizioni materiali e i pacifici meccanismi ricattatori istituzionalizzati hanno solamente effetto. Questo passaggio sul piano fondamentale succede quotidianamente. Gli Stati concorrenti, infatti, tendono nei loro conflitti sulle condizioni d’esportazione, sui problemi d’indebitamento, ecc. di non fermarsi nel loro litigio solo sui relativi vantaggi e svantaggi, ma a vedere in questo un attacco al loro dominio sulla base economica e dunque alla loro sovranità sulle proprie condizioni d' esistenza. È un punto di vista che è in certo modo rispecchia la realtà. Gli uni, i perdenti della concorrenza mondiale, hanno già perso in linea di principio la loro sovranità politica-economico come creatori di denaro e fornitori di credito del loro capitalismo nazionale, cedendola alle grandi potenze finanziarie mondiali: sono ostacolati nel loro sforzo profondamente giustificato di riconquistarsi tramite l’accumulazione di un tesoro di divise un pezzo di autonomia economica. Le grandi potenze finanziarie invece lo ritengono già una concessione enormemente generosa, se il resto del mondo si deve impegnare con tutti i mezzi di guadagnarsi il loro denaro; da questo fatto desumono il loro diritto di controllare l’uso del denaro che fanno gli altri e si vedono minacciati da arbitrarietà politiche-economico nella loro sovranità come potenza finanziaria mondiale. E nella misura in cui i partecipanti alla politica internazionale insistono sul fatto, che gli altri mettono le loro mani su diritti che essi ritengono un patrimonio fondamentale nel comportamento pacifico tra Stati, vedono sfidati come potenze supreme la propria volontà di pace da parte di una volontà ostile.
Anche alcuni comunisti, con il gesto di essere gli unici che sanno veramente come funzioni il capitalismo, sono capaci di proporre e chiedere questa “soluzione” per i problemi del capitalismo con il lavoro, fraintendendo l’analisi e con essa la critica del capitalismo da parte di Marx come fonte inesauribile di soluzioni contro i problemi di questo modo di produzione, oppure, contro i problemi che i capitalisti creano alla classe operaia: “(…) Dopo aver analizzato i fondamenti teorici della caduta tendenziale, abbiamo dunque individuato come, nell’insieme delle cause antagonistiche alla caduta tendenziale, l’ampliamento dei valori d’uso sia l’espressione di uno dei due aspetti del plusvalore relativo: l’innovazione di prodotto, che oppone resistenza oggettiva alla crisi, mentre quella di processo — l’altro aspetto del plusvalore relativo — ne è la causa. Questo ci interessava qui portare in chiaro, per poi passare — prossimamente — ad analizzare, sempre internamente ai fondamentali marxiani, la possibilità empirica di indurre l’innovazione di prodotto, per migliorare le condizioni di riproduzione della forza lavoro, riducendo la disoccupazione.” (Conclusione finale del articolo ‘ La scintilla e l’operaio: la politica di classe sull’innovazione industriale’ di Massimo Gattamelata, Contraddizione no. 118, marzo 2007)