Gli Stati capitalistici, sia piccoli che grandi, di un tempo o di oggi, si impegnano, oltre che ad occuparsi della loro concorrenza economica, ad assicurarsi ed a garantirsi rapporti di concorrenza interstatali utili ad essi. In piena pace mantengono eserciti stanziali, si forniscono di armi moderne sempre più potenti e stringono alleanze militari per prepararsi militarmente — contro i loro pari naturalmente. Gli altri Stati, i loro partner nello scambio economico, li considerano una minaccia per se stessi e per i loro interessi, e così fanno tutti — reciprocamente. Ciò che teoricamente rifiutano come maligna insinuazione è il punto di partenza naturale della loro politica pratica, della realtà dei loro rapporti internazionali, cioè partono nella pratica dal presupposto che essi stessi costituiscano reciprocamente la fonte del pericolo contro cui ognuno afferma di volersi soltanto difendere. Fin dall'inizio, e indipendentemente da qualsiasi particolare conflitto, gli Stati partono dal presupposto di essere minacciati. Lo sviluppo del proprio potenziale di minaccia a mano armata lo intendono come difesa e reazione a questa minaccia.[ 3 ] In questo modo ognuno combatte nell’altro ciò che esso stesso sta praticando: gli Stati capitalistici concorrono l’uno contro l’altro come puri poteri sovrani armati.
Nella loro politica di sicurezza gli Stati, legati gli uni agli altri per i loro rapporti economici, smentiscono le loro belle frasi circa il ‘vantaggio generale’ che deriverebbe dallo scambio economico, l’equilibrato ‘dare e prendere’ della loro cooperazione economica e la ‘benefica necessità di arrivare ad un compromesso’.
Ammettono quanto poco si fidono dei rapporti contrattuali che stringono con i loro partner: non credono che il vantaggio che sia essi stessi che il loro partner cercano di assicurarsi con il contratto rappresenti in sé una base sicura dei loro rapporti. Ammettono dunque di quanto gli sia familiare il contrasto escludente con gli stessi Stati con cui collaborano economicamente: intrecciano rapporti commerciali per lo sfruttamento delle fonti di ricchezza degli altri Stati sovrani e così rafforzano la loro potenza politica ai danni di quest'ultimi e si impongono a loro in quanto “Potenza”. Per tale scopo utilizzano i loro partner: con il loro potere sulla loro società questi ultimi devono mettersi a disposizione e darsi da fare per il vantaggio straniero – indipendentemente o anche addirittura contro il proprio vantaggio economico. Così gli Stati così pretendono reciprocamente cose inaccettabili. Di conseguenza per essi l’accesso a fonti di ricchezza estere è una dipendenza molto problematica, se non addirittura pericolosa. Considerano i fondamenti della loro esistenza nazionale dipendenti dall’egoismo di potenze straniere, i quali naturalmente sfruttano tale dipendenza come possono. Usando eufemismi difensivi del tipo „bisogna evitare di diventare “ricattabili” oppure bisogna conservare la propria “libertà d’azione”“, gli Stati proclamano a quale condizione ‘potrebbero’ considerare sopportabile questa dipendenza in realtà insopportabile: cioè a condizione che venga garantito il loro continuo immischiarsi nella formazione della volontà dell’altro Stato sovrano e che essi siano in grado di controllarlo e di renderlo garante della propria utilità. Soltanto a queste condizioni non temono di essere sfruttati dalle potenze straniere da cui dipendono. Termini come il „nostro petrolio” e le “nostre vie di rifornimento” racchiudono il sillogismo della logica imperialistica in modo tanto conciso quanto insolente. Primo: “noi” compriamo e consumiamo il petrolio, pompato per esempio dal sottosuolo arabo, petrolio che appartiene dunque ai sovrani arabi e non affatto a “noi”. Secondo: „noi“ dipendiamo - perché è utile per “noi” e perché così “noi” promuoviamo la “nostra” crescita economica - da una puntuale, affidabile, sufficiente ed economica fornitura del petrolio. Terzo: Per questo motivo “noi” dobbiamo sottomettere al “nostro” controllo la regione ed i suoi sovrani nonché le vie di rifornimento, affinché non veniamo ricattati politicamente ed economicamente dagli sceicchi del petrolio. La stessa logica, solo a rovescio, si ritrova nella lamentela che riguarda la Russia, grande fornitore di energia per l’Europa: questo grande Paese riesce a (ri)arrivare al rango di una potenza mondiale perché “noi” dipendiamo dal suo petrolio e dal suo gas, e a causa di questo handicap non siamo in grado di procedere con la dovuta mancanza di riguardo contro i suoi interessi di potere.
L’ampia utilizzazione di altri mercati e Paesi come d'altronde l’internazionalizzazione del capitale non hanno minimamente moderato gli Stati coinvolti, ma hanno acuito il loro rapporto d’esclusione esistente da sempre e gli hanno conferito nuove forme. Il dominio politico su un Paese e sui suoi abitanti – ormai di qualche secolo più vecchio del capitalismo – consiste sostanzialmente nella sua esclusività e nel poter escludere ogni altro dominio da tutto ciò che è a propria disposizione. Questa esclusione non viene decisa una volta per sempre, ma è una perenne questione di potere e forza: tutte e due le parti, sia lo Stato sovrano sul suo territorio sia lo Stato sovrano estero escluso da tale territorio, si impongono dei limiti che entrambi sopportano soltanto finché ne sono costretti.
Per secoli i sovrani hanno ‘giocato’ a indovinare se e quando devono accettare questi limiti, perché con le loro pretese i sovrani di oggigiorno vanno – nella scia di quelli storici sempre al di là dei limiti e confini della portata territoriale del loro potere. Ai tempi in cui le comunità effettuavano pochi scambi e traffici commerciali fra di loro, lo sguardo bramoso dei potentati stranieri si volgeva alle determinazioni elementari dello Stato: al comando su un altro Paese e la sua gente, nonché alla domanda circa cosa potesse essere preso come bottino oppure imposto come tributo. Anche se, dopo molte guerre, gli Stati moderni hanno scoperto che è possibile sfruttare altri Paesi con le loro potenzialità per la propria ricchezza nazionale anche senza averli conquistati e annessi al proprio dominio, i rapporti tra di loro non sono divenuti più pacifici. Al contrario: il fatto che non abbiano più relazioni solo saltuarie ma dei rapporti commerciali in grande stile ha invece moltiplicato il materiale del loro antagonismo. Al saccheggiamento dei Paesi conquistati — necessariamente limitato alla ricchezza materiale realmente esistente al momento della conquista, — oppure al tributo rovinoso e dunque transitorio — o limitato dalle eccedenze di un modo di produzione fisso, e quindi magro, — gli Stati moderni sostituiscono l’utilizzo durevole, concesso reciprocamente, di fonti estere di ricchezza e di crescita, che in questo modo diventano mezzo della propria sussistenza economica. Concorrono al successo che deriva dall’uso del mercato mondiale, si impadroniscono della ricchezza capitalistica del mondo sul piano nazionale ed escludono in questa maniera altre nazioni dalle potenzialità economiche del capitale. Dato che tutta l’attività economica gira attorno a tale appropriazione ed espropriazione tra le nazioni e dato che ciò richiede dal partner — nonostante interessi contrastanti — la disponibilità assicurata di cooperare, la conquista territoriale di una volta viene sostituita dall’aspirazione non meno violenta, di controllare in modo durevole la volontà del partner sovrano. Questo concetto dell’imperialismo moderno[ 4 ] è inerente alla ragione di stato di tutte le nazioni capitalistiche, malgrado il fatto che esse ben presto si dividono in oggetti e soggetti di questo sistema di controllo. Perché per tutti vale lo stesso principio: l’utilizzazione economica di altri Stati riesce o fallisce a seconda del successo o del fallimento del reciproco rapporto di dominio.
La scienza della politica internazionale crede al suo committente, lo Stato, sulla parola, quando esso giustifica la sua politica di sicurezza e di difesa come pura reazione contro minacce provenienti dall’estero, e da questa convinzione essa trae due conclusioni alternative: o la scienza partecipa alla criminalizzazione ufficiale dell’avversario, lo definisce disturbatore della pace e aggressore e rivanga ancora una volta la teoria della guerra giustificata. O rende la definizione di guerra come sola “reazione” – generalizzandola per tutti gli Stati – veramente il punto di partenza dell’analisi della politica estera. Così crea però un vero circolo vizioso: se ogni Stato con i suoi armamenti reagisce, e non agisce, “reagisce” ad una solamente presunta, ma non vera aggressività di altri Stati – ne risulta che minacce presupposte per errore diventano vere minacce. Alla fine gli Stati finiscono col distruggersi reciprocamente con la guerra, perché “non possono essere sicuri delle buone intenzioni dei loro partner”. „States can never be certain about the intentions of other states“ – così John Mearsheimer, un principe del settore, spiega perché gli Stati siano tutti pronti alla guerra. (The False Promise of International Institutions, in: International Security, Winter 1994/95, Vol 19, No. 3,10) Purtroppo è vero che il dispiegamento di potere degli Stati nella e per la politica estera ha delle ragioni più reali che uno stupido, ma proprio stupido malinteso.
[ 4 ]È uno degli scherzi classici della nomenclatura universitaria delle scienze politiche che, nel suo modo moralizzante, non applica la categoria “imperialismo”, da essa certamente conosciuta, per definire il rapporto essenzialmente antagonista degli Stati moderni. Il termine “imperialismo” è riservato a rapporti di forza e di dominio di altri tempi: l’impero romano e l’impero britannico sono conosciuti sotto questa denominazione così come quel periodo di transizione verso condizioni moderne in cui le potenze europee fecero a gara per la spartizione del mondo in imperi coloniali. Quest'ultimo periodo si chiama anche nella scienza politica “era dell’imperialismo”. D'altronde la teoria politica non riesce più a scoprire un rapporto di dominio là dove la volontà di dominio di uno Stato non elimina lo Stato sovrano che gli si oppone e non si appropria del suo territorio e della sua gente e dove tuttavia Stati sovrani dominano altri Stati sovrani, – esclusi, naturalmente, i casi in cui si tratta di uno Stato nemico. In questi casi si usa infatti la denominazione “imperialismo”: per dichiarare illecito il comportamento di un nemico politico o addirittura la sua esistenza. Quindi il termine “imperialismo” come insulto non è affatto obsoleto. All’Unione Sovietica non-capitalista fu attribuita una “politica estera imperialistica” e la sua alleanza era definita un “impero rosso”. E le prove di forza di Putin nella politica interna come in quella estera, con cui teneva unita la Federazione russa e cercava di conservare l’influenza russa sul “vicino estero”, cioè sulle ex-repubbliche sovietiche che circondano la Russia, sono stigmatizzate come “ricaduta della Russia in una politica imperialistica”. Nel frattempo anche gli USA non sono più immuni dal sospetto di essere una potenza imperialistica. Da quando gli Stati Uniti di Bush dichiarono l’intero mondo un potenziale campo di battaglia, e da quando gli americani si prendono la libertà di assalire ed occupare Paesi i cui governi non gli piacciono, l’antiamericanismo intellettuale si pone la questione se non si stia annunciando un eventuale “ritorno dell’imperialismo” e se l’America non si comporti ancora o nuovamente come un “impero”. Dato che non si apprezza il ruolo di potenza dominante degli americani, si punta il dito contro i metodi della loro imposizione – usando un tono e una certezza che lasciano trasparire la convinzione di accusare una violazione del rapporto normale e giusto tra potenze sovrane.