In ultima conseguenza gli Stati si fanno la concorrenza per il dominio dell’uno sull’altro con la guerra. Mobilitano i loro popoli e utilizzano la loro ricchezza nazionale per eliminare l’avversario considerato definitivamente intollerabile, cioè “il nemico”, distruggendo i suoi strumenti militari e le sue fonti di potere. In questa estrema concorrenza tra gli Stati „è in gioco il tutto per tutto”, cioè la loro autoaffermazione come Potere supremo, dunque molto di più dell’arricchimento e del rafforzamento che in tempi di pace sono al centro della concorrenza economica interstatale. Nella guerra sono in gioco gli Stati stessi in quanto soggetto di ogni concorrenza e di ogni arricchimento. Per affermarsi ed imporsi gli Stati talvolta considerano strenuamente indispensabile il passaggio, in effetti non privo di contraddizioni, all’impiego della propria potenza e ricchezza come strumento di distruzione. Questo passaggio lo fanno “senza badare a perdite”, e ciò riguarda non solo il nemico ma anche i mezzi e le fonti della propria potenza, sia quelli che impiegano per la guerra, sia quelli che reclamano con la guerra.
Questo vale, in prima istanza, per il loro rapporto con l’estero. Nella guerra gli Stati distruggono presso il loro nemico tutto ciò che ‘normalmente’ mirano ad utilizzare e cercano di avere a disposizione come fonte di arricchimento e rafforzamento. Distruggono con la loro campagna militare anche tutto ciò che intendono di rendere definitivamente accessibile ai loro scopi. E se si dovessero trovare sulla loro rotta verso il nemico un terzo, uno Stato o un altro ‘ostacolo’ non coinvolto, operano in modo uguale. Per affermare il loro potere dispositivo incontestato gli Stati distruggono esattamente tutto ciò che pongono al centro del loro interesse in tempo di pace, cioè quando praticano il loro potere dispositivo su altri Stati sovrani; e non si lasciano minimamente frenare da obiezioni benevoli che p.e esortano i responsabili di pensare già alla ricostruzione quando stanno ancora devastando un Paese. E questo loro fanatismo non si limita alle vittime immediate della campagna militare. Con la guerra gli Stati interrompono con tutto il loro potere politico e militare l’andamento degli affari mondiali in quel punto e in quella misura in cui ne approfitta il loro nemico; anche se loro approfittavano o approfittano di tali affari. Avendo i danni di guerra alla propria nazione davanti agli occhi persino i politici vengono talvolta assillati dal conflitto di coscienza. Per di più, siccome i danni non rimangono limitati a tali rapporti: gli Stati rischiano la rottura dei loro rapporti complessivi con l’estero. Essi stessi disturbano e mettono a repentaglio il commercio globale e il proprio vantaggio che traggono dall’andamento degli affari mondiali; e anche il vantaggio di terzi che in tempi moderni, non rimangono mai interamente fuori gioco. Contemporaneamente lo Stato in guerra insiste più che mai e senza compromessi sulla continuazione del commercio internazionale; e questo lo fa per ragioni molto più importanti che per quelli commerciali: priorità assoluta non hanno più gli affari della nazione, ma gli afflussi di tutti i beni necessari per lo scopo bellico. Lo Stato incide spietatamente sulla propria solvibilità internazionale per garantire che non cessi mai il rifornimento con i rispettivi valori d’uso, un rifornimento necessario e talmente importante che, data la situazione straordinaria, non deve più dipendere dai calcoli meramente commerciali dei capitalisti. E nel commercio con Paesi terzi, — che fanno i propri calcoli commerciali e a loro volta completano i loro calcoli di un proprio ben ponderato calcolo di sicurezza, — il passaggio dal comprare al sequestrare è sempre all’ordine del giorno. Tutto ciò che il commercio internazionale offre economicamente agli Stati, — e per cui essi hanno infine permesso e istituito gli affari internazionali, — viene militarizzato e sussunto alle esigenze delle parti in guerra. Tali esigenze non seguono minimamente la logica del commercio capitalistico che di conseguenza viene disturbato e, a seconda la dimensione della guerra e il suo andamento, addirittura rovinato. Contemporaneamente, il commercio internazionale viene per le necessità della guerra strapazzato fino allo stremo.
Lo stesso vale, in seconda istanza, anche per la vita interna delle nazioni in guerra: Essa viene compromessa, e, a seconda delle dimensioni dell’avventura, addirittura messa anche a rischio – comunque sia, il popolo deve reggere e sopportare le distruzioni incombenti o già avvenute. Contemporaneamente lo Stato si serve, per lo scopo superiore, cioè la sua auto-affermazione violenta, in modo estremo della sua base politica e economica; essa deve assolutamente fornirgli tutto ciò di cui il Comando supremo della nazione ha bisogno per gli armamenti militari.
Questo significa: la vita d’affari della nazione viene convertita in economia di guerra, cioè lo Stato revoca al capitale la licenza di disporre in modo libero di lavoro e di ricchezza. Nella pace il capitale finanzia, produce e commercia tutto ciò che porta profitto e nella misura in cui porta profitto. In tempi di guerra la cosa cambia: Ora viene prodotto tutto ciò di cui il fronte ha bisogno per gli armamenti e i rifornimenti, nonché ciò che ‘il fronte interno’ necessita per la sua protezione e le misure di riparazione, per superare l’emergenza e per conservare un approvvigionamento di base. „L’approvvigionamento” non rimane più semplicemente il risultato che alla fine “risulta” letteralmente dalla lotta di concorrenza dei produttori di merci, ma diviene invece direttiva, decretata in modo sovrano dalle autorità a seconda le loro priorità come e in che cosa impiegare il lavoro nazionale. E persino l’uso del lavoro stesso non rimane più quello che è nei tempi di pace – a disposizione dei datori di lavoro capitalistici e il mero risultato dei loro calcoli: il potere statale stesso si assume il comando ovunque dove i calcoli capitalistici di redditività non forniscono alla nazione ciò che la macchina di guerra pretende. Ciò nonostante, una cosa rimane sempre valida: per quanto le autorità di uno Stato capitalistico aboliscano in caso di guerra la libertà della civile massimizzazione del profitto principalmente oppure la limitino, dove gli sembra necessario – la massimizzazione del profitto stesso, quello scopo e metro di misura della produzione nel capitalismo, non la aboliscono. Lo Stato paga tutto ciò di cui la nazione ha bisogno e lo paga secondo i calcoli che gli imprenditori che anche in tempi di guerra seguono la loro professione commerciale gli presentano. Contemporaneamente l’impegno estremo di tutti i mestieri per soddisfare il crescente fabbisogno della nazione che sta letteralmente “esplodendo” mitiga in modo significante la pressione della concorrenza e apre diverse libertà di gonfiare i prezzi. Così il mondo economico si indennizza per il rischio di perdere sostanza economica a causa di possibili distruzioni belliche. Si che con il gonfiare dei prezzi il potere d’acquisto del popolo si rovina, ma per lo Stato il suo denaro si afferma comunque, anche nella più grande carneficina, come l’idoneo strumento di comando sull’economia nazionale, visto che, contemporaneamente, i proprietari e i manager anche in tempi di guerra esercitano con tale strumento il comando sul lavoro della società. E meravigliosamente il denaro si afferma per lo Stato come tale strumento tanto meglio quanto più alto è il grado di sviluppo del suo capitalismo, cioè quanto più potente è la ricchezza accumulata e in atto di accumulazione e quanto più l’andamento della guerra si inverte a favore della nazione. Riguardo alla necessità di dover procurarsi i mezzi finanziari necessari per tutti i suoi scopi il potere statale non si considera affatto in una situazione imbarazzante. Si serve del credito che, contemporaneamente, crea in prima persona secondo le regole della creazione sovrana di denaro; certamente non può far dipendere la sua strategia di guerra dallo stato del gettito fiscale! Lo Stato non ha neanche problemi di allibrare meticolosamente nel suo bilancio pubblico il dispendio per la sua opera di distruzione, accanto alla spesa, — necessaria anche in quei tempi, — per la sanità, la cultura ecc., e paga anche gli interessi che ne risultano e che fanno ancora crescere la somma dell’indebitamento per la guerra.
Una qualche particolarità rispetto ai crediti per la pace esiste però. È infatti lo Stato in guerra che crea e garantisce tali crediti, cioè la potenza sovrana che senza scrupoli bada a nient’altro che ai scopi propri. Nella guerra non solo non ha nessun scrupolo di mettere in ballo i fondamenti materiali della sua economia nazionale e strapazzarli gravemente, ma non mostra neanche rispetto verso la potente “costrizione materiale” economica, la quale consiste in ciò che il denaro creato da esso stesso e messo in circolazione come mezzo creditizio e titolo di credito deve affermarsi come fonte di accumulazione capitalistica affinché valga come ricchezza reale e lo Stato non si veda davanti al fenomeno che l’aumento della sua massa corrisponde ad una sua svalorizzazione in quanto unità di misura di tale ricchezza. Formalmente rimane valida la garanzia dello Stato: I suoi debiti rappresentano vera e propria proprietà e la fanno realmente aumentare attraverso gli interessi da esso pagati. E, da una parte, anche questo è vero: chi ne guadagna abbastanza diviene più ricco, anche in mezzo alla guerra e con un denaro che paga nient’altro che la distruzione; in tempi di guerra la concorrenza dei capitalisti in fondo non gira intorno ad altro che la possibilità di uscire profittatore di guerra. D’altra parte, tutto ciò non cambia il fatto che i crediti di guerra sono e rimangono un modo non capitalistico in cui uno Stato impiega il suo denaro. Quando lo Stato usa i suoi mezzi finanziari per pagare ciò che gli necessita per la sua guerra, divergono principalmente due cose nel denaro: il comando che lo Stato esercita tramite esso sulla società e la garanzia statale che esso contiene riguardante l'arricchimento e la proprietà. L’enorme volume del denaro danneggia o rovina addirittura la sua potenza di mezzo per l’accumulazione capitalistica. D’altra parte tutto questo nella guerra non ha nessuna importanza. Nella guerra il potere statale non tollera nessun dubbio né riguardante il suo potere di comando né il suo denaro. Esso rifiuta in modo categorico di rendere la sua auto-affermazione violenta dipendente dalla questione del rendimento di questo atto di violenza per l’arricchimento privato. Quando lo Stato costringe la sua società a sottomettersi al profitto capitalistico, cioè di essere al servizio della ricchezza capitalistica e di rendere la crescita di tale ricchezza il suo scopo e mezzo di vita, agisce tanto rigorosamente, quanto rifiuta incondizionatamente di abbassarsi a diventare l’appendice dei profitti che il suo capitalismo nazionale è in grado di produrre. Nella guerra, quando il Potere supremo in modo totale ed esistenziale bada solo a se stesso e alla propria impostazione, esso fa valere questo assolutismo anche nel campo economico. Lo Stato esige in modo assoluto che la moneta che ha creato si avveri come mezzo adeguato per il suo scopo di servirsi della proprietà capitalistica per procurarsi i mezzi necessari per vincere la guerra. In tempo di guerra l'ottica del potere statale cambia: non è così che esso non si alimenta dal denaro creato e aumentato dalla sua economia. L’imprenditorialità se la deve cavare con il denaro che lo Stato sta mettendo in circolazione per finanziare la sua guerra. Soltanto quando la guerra è finita e le autorità stanno di nuovo vincolando la loro economia nazionale alla “rentabilità” e al valore stabile del denaro, soltanto quando, — avvenuta secondo il copione dei generali l’assicurazione violenta dei pieni poteri dello Stato sulle fonti del suo potere, — viene ristabilito l’uso di queste fonti secondo il manuale del capitalismo, dunque, soltanto quando lo Stato borghese mette in prima persona in vigore il criterio dell’idoneità capitalistica della sua materia monetaria auto creata, soltanto ora il mondo economico si fa avanti con i suoi dubbi riguardante il “valore” delle masse enormi di denaro create dallo Stato. Adesso i capitalisti sono e si sentono autorizzati di verificare in modo critico quanto il denaro abbia “sofferto” a causa del suo uso come “combustibile” per la guerra, e cioè in quale misura la garanzia statale della proprietà, rappresentata nel denaro “consumato” per la guerra, abbia in realtà espropriato la società. Poi, la svalutazione del mezzo creditizio, della moneta nazionale che è dovuta al suo uso come credito e per i crediti di guerra viene messa in pratica e lo Stato ha da registrare non soltanto i danni materiali causati dalla guerra, ma anche la crisi del valore monetario. E se la guerra e i debiti sono stati particolarmente impegnativi, lo Stato toglie dalla circolazione i suoi debiti di guerra con una ‘riforma monetaria’ che nello stretto senso della parola non ‘riforma’ niente, ma annulla misura dei valori e mezzo della ricchezza della società finora valido. Perfino una vittoria non protegge sempre da tali conseguenze, anche se una vittoria apre ai grandi proprietari di titoli di rendita pubblica naturalmente la bella prospettiva di entrare in grande stile e con successo negli affari internazionali pacifici riaperti. In questo senso una vittoria crea ottime premesse: perché un’accumulazione globale basata su tali mezzi creditizi, la sua valuta, attesta ad essi posteriormente la qualità di capitale vero e proprio. Un’economia capitalista di guerra è, ad ogni modo, la subordinazione pratica della ricchezza sociale, cioè della potenza privata della proprietà, alla buona o cattiva sorte dello Stato; alla sorte di quello stesso Stato che in periodo di pace subordina tutto e tutti al capitale e la sua crescita.
Per il popolo la sussunzione alla guerra e all’economia di guerra equivale a tanti nuovi posti di lavoro, in parte direttamente nel servizio dello Stato, cioè nel servizio militare, in parte nel servizio dei privati datori di lavoro i cui affari in tempi di guerra sono anche, — almeno prevalentemente, — al servizio dello Stato; e questo significa per il popolo: i suoi consueti sacrifici cambiano un po’ e si aggiungono — a seconda l’andamento della guerra — dei sacrifici particolari e nuovi.
Da una parte si lavora di più. Questo è, per le masse dipendenti e gli altri strati inferiori della società capitalista, il primo effetto del fatto che adesso lo Stato, nell’interesse e secondo il bisogno della sua strategia di guerra, si assume la regia sulla propria economia nazionale, organizza anche in prima persona dei servizi di lavoro obbligatorio e manda le forze-lavoro più abili al servizio militare. Questo fatto rappresenta, sotto le condizioni assurde dell’economia politica del capitale, per la parte disoccupata dell’umanità sfruttata realmente qualcosa di simile ad una fortuna: alla memoria lunga dei popoli, nel loro indistruttibile servilismo, i loro signori della guerra si fanno onore con questo ‘servizio’, e qualche critico storico comprende improvvisamente la ragione per cui i tedeschi si sentivano così bene sotto il dominio di Adolf Hitler, così come gli italiani sotto il duce. Il fatto che il lavoro aumentato non porti con sé alcun benessere per quelli che devono prestarlo non sorprende: tale lavoro è produttivo soltanto per le capacità di distruzione del potere statale. Ma secondo la stessa logica anche questo non è criticabile. Nei tempi di guerra lo Stato ha bisogno del suo denaro per cose più importanti che i salari delle sue forze-lavoro o ‘problemi sociali’. Anche i ‘donatori’ di lavoro hanno bisogno del ‘loro’ denaro e perciò mettono in moto un’onda di aumentati costi della vita. E poiché la guerra non è proprio il tempo adatto per i sindacati nazionali di battersi per una compensazione dei peggiorati rapporti tra salario e prestazione, — anzi, quando il proletariato muore per la patria questi organizzano le campagne nazionali di lavoro straordinario e incassano il salario morale di riconoscimento pubblico ed ufficiale, — il livello dei salari e lo standard di vita scendono. A seconda le circostanze si diffonde anche una carenza alimentare e ciò rende ovvio quello che i bravi lavoratori non vogliono mai ammettere a se stessi: il loro lavoro non lo fanno né per sé stessi né per godersi poi il tempo libero, invece la loro pregiatissima persona lavora e vive per rendere servizio a fini superiori; adesso, dunque, al fine supremo, che ha superiorità anche sulla crescita economica, cioè alla potenza del Potere supremo, lo Stato. Le bombe nemiche, — che, a seconda l’andamento della guerra, il popolo deve sopportare senza che si affievolisca la sua volontà e capacità di lavoro, — non lasciano definitivamente più dubbi sul rapporto tra scopo personale e mezzo economico; di solito però neanche le bombe sono in grado di mettere zizzania tra le masse e il governo. I danni di guerra subiti confermano soltanto l’immagine del nemico cattivo che il potere statale offre alla sua gente come buona ragione della guerra. Per la gente per bene e timorata di Dio le restrizioni prescritte dalle autorità, — turni straordinari, soprattasse e altra miseria prodotta dalla guerra, — sono la prova pratica che “capita quel che capita” e che “la situazione” obbliga tutti “all’unita nazionale”; e meno che mai tutto ciò viene preso come conferma che il popolo, con la sua intera esistenza ovviamente non è altro che la variabile dipendente del dominio statale. Del resto nella guerra sia lo sdegno contro il nemico che la solidarietà popolare non sono soltanto un’opinione che un libero cittadino puo condividere o no, ma una convinzione vincolante. Chi si mostra distaccato o chi prende addirittura pubblicamente le distanze si fa colpevole di minare la potenza militare della nazione e offende comunque i giovani compatrioti, che sul campo dell’onore e meno che mai per il fondamentalismo brutale della ‘Potenza suprema’ “fanno le spese per tutti noi”. I giovani che nella guerra sono alle armi e che vengono dal popolo senza riserva apprezzati come “i nostri” hanno il doppio obbligo di essere pronti a dare la propria vita e, soprattutto, a distruggere le vite degli altri. Mettendo in gioco la propria vita, devono ammazzare degli sconosciuti nel modo più efficace possibile e anche in massa, cioè devono compiere atti che nella vita civile sono severamente vietati e che, almeno per un uomo più o meno normale, anche se l’ordine d’uccidere viene dal alto, vanno contro ogni sensazione morale — per non parlarne della ragione. A dispetto di tutto ciò, e contrariamente all’opinione di qualche moralista e pacifista, che li chiama “assassini”, l’uccisione da parte dei soldati non è omicidio. Omicidio esiste solo nella vita borghese quando viene in mente a qualche brava persona — motivata “da bassi motivi” — di eliminare quella persona che riguarda d'intralcio alla sua “fortuna personale”. A differenza di ciò l’uccidere in guerra, è un dovere; i soldati non hanno nessuna ragione personale: devono combattere contro gente con cui non hanno nessun rapporto tranne uno solo: anche quella gente porta la divisa della sua patria; solo che si tratta della divisa di un altro Stato. La brutalità di cancellare la vita di sconosciuti ha naturalmente bisogno, per manifestarsi come dovuto, dell’immagine del ‘cattivo nemico’ che ammazza i camerati e che merita perciò la morte; adeguatamente la guerra stessa produce ogni tipo di cattiva esperienza da cui il soldato può facilmente dedurre le ragioni per un’ostilità giustificata. Il motivo d’uccidere creato in modo ideologico, deve portare il soldato all’adempimento del suo compito, però non ad atti di vendetta personale e ad atrocità non commissionate. Dev’essere capace dell’”acrobazia” di diventare precisamente quel mostro abbrutito preteso dal suo mestiere e, contemporaneamente, di non esserlo. Con l’impiego di tutte le sue forze e con la paura mortale di essere ucciso deve eseguire la cosa più impersonale del mondo: uccidere sconosciuti senza motivo personale. Se invece fallisce in questo mestiere e si lascia istigare dal suo irrinunciabile odio al nemico ad eccessi personali, è un criminale. Di conseguenza, quelli che normalmente sono chiamati “i nostri eroi”, non vengono più onorati con una medaglia al valore, ma accusati davanti a un tribunale militare, se il secreto di violazioni viene scoperto. Fintantoché il soldato in quelle circostanze straordinarie uccide però su ordinazione non mostra soltanto un' altra morale del cittadino che quella della vita borghese, ma presta addirittura il più alto dovere civico possibile. Il fatto che seguendo l’ordine tanti soldati muoiono, viene apprezzato come volontario sacrificio estremo che gli individui fanno per la comunità statale e per cui la patria li deve riconoscimento e onore postumo.
Lo Stato borghese affronta la guerra trasformando in strumenti bellici tutti gli elementi della sua “vita interna”, cioè le ricchezze materiali, le sue città, i fondamenti di vita della sua popolazione e anche una grande quantità di vite umane che consuma per la guerra. Agendo così lo Stato fa valere brutalmente quell’ordine della scala dei valori che in linea di principio vale sempre, ma che, nella vita civile, cade facilmente nell’oblio. La libertà, la proprietà, la vita e l’esistenza privata sono concesse dal potere che impone e mantiene l’ordine interno della nazione. Lo Stato obbliga i suoi sudditi ai loro ruoli sociali, tracciati dalla libertà e dalla proprietà privata, perché proprio così adempiono il loro servizio civile per la crescita del capitale e per lo Stato. Quando lo Stato, creatore dell’ordine sociale, vede in pericolo la sua sovranità, e dunque se stesso, decreta che esso stesso e la propria permanenza siano l’essenza dell’intera vita sociale e d’altra parte riduce tutto, dai rapporti politici interni fino alla vita essenziale dei cittadini, allo strumento della sua autoaffermazione. Anche in merito alla morale la guerra dà chiarezza riguardo al reale contenuto dei rapporti sociali: tutto il parlare del “riguardo al prossimo”, del “pensare agli altri”, della “responsabilità” e “dell’interesse collettivo superiore all’interesse personale” ha come punto di riferimento non l’umanità o altre astrazioni, ma quella comunità sociale che esiste realmente, la società capitalista, e l’istanza che la tiene insieme con il suo potere e la sua forza, lo Stato. Contribuire al successo della sua natura violenta è la prima e la più grande prestazione in comune della sua società; di sacrificarsi per lo Stato è la più grande dedizione morale e la più grande virtù; morire per esso è la più alta autentificazione del “fatto” che l’uomo è destinato a scopi più alti che il semplice benessere personale. La guerra è „una situazione nella quale la vanità delle cose e dei beni temporali — vanità che in altri casi suole essere un modo di dire edificante — diventa una cosa seria” dice Hegel pieno di entusiasmo per l’altezza morale di un popolo pronto alla guerra.[ 5 ]
Il grande filosofo, infatti, fa piazza pulita con opinioni concilianti e minimizzanti sulle forze armate e sulla guerra e illustra con parole chiare, però senza un’ombra di critica, la barbarie su cui si basa la civilizzazione moderna. Precisamente questa barbarie è il rapporto di dominio etico che Hegel sublima come il supremo modo d’esistenza del genere umano: sarebbe “il dovere sostanziale” dei cittadini “di conservare questa individualità sostanziale — l’indipendenza e la sovranità dello Stato — mediante l’esposizione al pericolo e al sacrificio della loro proprietà e della loro vita, e senz’altro anche delle loro opinioni e di tutto ciò, che di per sé, appartiene all’ambito della vita. Si fa un calcolo assai sbagliato se nel momento in cui si esige questo sacrificio, lo Stato viene considerato soltanto come società civile e se il fine ultimo dello Stato viene individuato semplicemente nell’assicurazione della vita e della proprietà degli individui. Questa sicurezza, infatti, non viene affatto conseguita col sacrificio di ciò che dev’essere assicurato, ma proprio col contrario.” (Hegel, filosofia del Diritto, § 324)